Vita

La storia. Tre fratellini, la stessa malattia. «La loro vita un dono che salvèrà altri»

Lucia Bellaspiga, inviata a Erba giovedì 6 giugno 2024

I fratellini Davide e Simone

Luca, Davide e Simone sono nati tra il 1992 e il 1996, ma non un solo giorno sono vissuti tutti e tre insieme. Anzi, la casa di Erba in cui Paola e Massimo ci accolgono non ha mai visto nessuno dei loro bambini: «Quando siamo rimasti noi due abbiamo traslocato, troppo doloroso restare lì». Paola Melotti, 57 anni, e Massimo Carbone, 62, parlano con la serenità di chi passando attraverso la prova della più nera disperazione ha saputo trovare un perché alla vita che continua. «Perdere tre figli, nati tutti con la stessa malattia metabolica, ti annienta – spiegano –, ma o ti spari o capisci che il sacrificio fatto dai tuoi bambini non può andare sprecato: continuiamo a essere genitori in un modo diverso, lottando perché le cure che i nostri figli non hanno avuto possano salvare altri bambini con la stessa malattia. La forza ce l’ha data Davide: se lui è stato un gigante, che diritto abbiamo noi di mollare?».

Davide – il secondogenito, l’unico vissuto fino ai 13 anni – ha avuto il tempo di essere gioioso, di sognare di fare il radiocronista, di essere il primo della classe. Il suo pensiero lo ha espresso in un tema sulla Pasqua quattro mesi prima di morire, nel 2007: «È sbagliato pensare che la vita sia brutta solo perché si è in difficoltà o non si riesce a fare qualcosa. La vita è infinita perché viene da Dio», scriveva con mano incerta, perché da mesi era diventato cieco. E ancora: «La vita è un dono che ci viene dato da Dio e dagli altri, noi dobbiamo viverla fino in fondo e al meglio», cosa che Davide ha realmente fatto, indicando ai genitori e ai nonni cosa avrebbero dovuto fare “dopo”, addirittura chiedendo di andare a Messa due giorni prima della fine per salutare i compagni. Per questo “La vita è un dono” è anche il nome dell’associazione che i genitori dei tre fratellini hanno fondato alla morte di Davide, nell’agosto del 2007. Il logo è una quercia sorridente con gli occhiali, come Davide si era disegnato con tanto di didascalia: «Io sono la quercia perché sono furbo, saggio, intelligente, gentile, forte».

«Con questi suoi segni, potevamo noi continuare a chiuderci in casa arrabbiati con Dio come stavamo facendo? Non ne avevamo diritto. Incredibilmente tanti vicini più o meno sconosciuti ci sono venuti a cercare e ci hanno offerto l’aiuto che non avremmo chiesto, arrivavano a lasciarci pietanze fuori dalla porta... Sono i nostri migliori amici». A portarsi via Luca (nato e morto nel 1992 a 46 giorni), poi Simone (nato per terzo nel 1996 e morto a un anno e mezzo) e infine Davide (nato nel 1993; a 4 anni ha visto morire Simone, sapendo bene che il male era lo stesso suo) è stata l’acidemia propionica, malattia che non permette di metabolizzare le proteine. Niente carne, niente pesce, niente uova, niente latte, niente di niente. Se si ingerisce una qualche proteina, l’acido propionico invade il sangue e avvelena gli organi. È una patologia a oggi inguaribile, «in Italia poche decine di casi», spiegano i genitori, rimasti totalmente soli perché i medici erano inermi e la ricerca impreparata. «Ci siamo messi in rete con le famiglie di tutto il mondo, ma nessun bambino sopravvive oltre una certa età».

Per questi piccoli, mangiare è una necessità che fa tanta paura, «pur di non stare male rifiutano il cibo, ma il circolo è vizioso: se l’organismo resta a digiuno inizia a consumare le riserve interne, che però sono proteine, e così si avvelena». La vita, allora, è tutta scandita da dosi di polveri caloriche ma aproteiche, e da piccoli escamotage, «ad esempio il grana è stato la salvezza di Davide, lo frullavamo e lui lo ingeriva goccia a goccia. Abbiamo sempre cercato di fargli fare una vita normale, in tanti anni di scuola avremo firmato tre giustificazioni». Non basta che un solo genitore sia portatore sano di acidemia propionica, bisogna esserlo tutti e due, «e appunto ci siamo incontrati... naturalmente non lo sapevamo». Che Luca fosse malato lo hanno scoperto solo alle prime poppate. Ma l’anno dopo hanno aspettato Davide, «non eravamo due incoscienti – precisano –, anzi eravamo incoraggiati dal fatto che c’era una possibilità su quattro che nascesse malato, invece sfortuna ha voluto che anche lui, e poi anche Simone... Le famiglie che conosciamo hanno un figlio malato e tutti gli altri sani».

Eppure Simone è stato un piccolo terremoto pieno di energia, e Davide ha riempito di luce la vita di chi lo ha frequentato, non solo dei genitori e dei nonni. A lui oggi è intitolata l’aula magna della sua scuola media a Eupilio, ma anche il parco di Castelmarte, dove da quel 2007 ogni anno a giugno la “Camminata sui sentieri di Davide” richiama migliaia di podisti che corrono nel verde e raccolgono fondi per la ricerca. «Organizzare i numerosi eventi che “La vita è un dono” porta avanti tutto l’anno è un lavoro», raccontano Paola e Massimo. Accanto a loro, i tanti volontari, «compresi i compagni di scuola di Davide, che avevano 13 anni come lui, oggi ne hanno 30 e nell’associazione hanno portato mariti, mogli e fidanzati». Perché il tempo scorre a due velocità, con Davide rimasto sempre il bambino paffuto che sorride dietro gli occhialetti, e i suoi amici diventati uomini e donne.

Grazie a migliaia di persone attratte dalla forza magnetica di quel bambino, sono stati così raccolti 863mila euro, donati dalla famiglia al reparto malattie metaboliche dell’Ospedale Bambino Gesù di Roma, dove il primario Carlo Dionisi Vici investe ogni centesimo nella ricerca. «Questi 863mila euro ai nostri figli non servono più, è vero, ma al Bambino Gesù diventano patrimonio di tutti i figli affetti da questa malattia, perché hanno diritto di essere curati e – speriamo – guariti». Ci vuole pazienza e fede, come quando si pianta una sequoia: chi getta il seme sa che non la vedrà adulta, ma sa anche che alla sua ombra riposeranno le future generazioni. «Così Vincenzo e Cosimo, due gemelli pugliesi operati l’anno scorso dal professor Dionisi Vici, ora vivono una vita quasi normale grazie a un doppio trapianto di fegato e reni. A 15 anni hanno mangiato il primo gelato della loro vita! ». I fondi raccolti dal 2007 hanno infatti permesso di assumere ricercatori, di raccogliere i dati di tutti i casi esistenti al mondo, «compresi i deceduti, perché sono utili anche gli insuccessi», e scoprire una novità fondamentale: che trapiantare il fegato il più presto possibile guarisce metà della malattia. «L’altra metà sarebbe ora una terapia genica per insegnare alle cellule a digerire le proteine, ma questo è il prossimo futuro».

Non solo, l’équipe di Dionisi Vici si è inventata di tenere “in vita” con la circolazione extracorporea il fegato espiantato (quello malato) e, anziché gettarlo, usarlo come “cavia” per provare i nuovi farmaci direttamente sull’essere umano, risparmiando anni di test. Il dolore non passerà mai, la disperazione sì. «Non ci chieda di vedere le loro foto, sono chiuse in una scatola dal 2007... Come si supera lo strazio? Volendoci bene», provano a spiegare, «e poi grazie alla fede: noi crediamo profondamente che i nostri bambini li rivedremo. Oggi sono tutti insieme nella stessa tomba, che poi sarà la nostra», sorridono. Davide non era un super-eroe, ma considerava sempre il lato positivo. Un giorno dall’Inghilterra era arrivata la notizia di un piccolo paziente che, trattato con la camera iperbarica, aveva temporaneamente ritrovato la vista, e quel giorno suo padre gli aveva promesso lo stesso regalo. È stata l’ultima cosa che Davide ha raccontato all’infermiera prima di morire: «Mio papà mi ha promesso che io vedrò!». «È una promessa a lungo termine – dicono con semplicità –, non ce l’abbiamo fatta con lui ma ce la faremo con gli altri».

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