Vita

La costituzionalista. Violini: non c'è un diritto al suicidio assistito

Marcello Palmieri giovedì 19 settembre 2019

La Corte costituzionale in seduta pubblica

«Cosa succederà martedì in Consulta? Bella domanda, ce lo stiamo chiedendo tutti». Il 'tutti' di Lorenza Violini, ordinario di Diritto costituzionale alla Statale di Milano, evidenzia le dimensioni del problema: la Corte costituzionale che ha invitato il Parlamento – pur con molti vincoli – a introdurre il suicidio assistito, e l’organo legislativo che non è riuscito a farlo entro il termine assegnatogli. Creando così il rischio concreto che sia la Corte a pronunciare l’ultima parola su un caso così problematico.

Da più parti è stato chiesto alla Corte un rinvio perché il Parlamento possa legiferare. Ritiene sia una via percorribile?
Fino allo scoppio della recente crisi di governo nutrivo alcuni dubbi in proposito. Tecnicamente, la Corte, ponendo come data di scadenza il 24 settembre prossimo non si è auto-vincolata, ben potendo decidere di concedere ulteriore tempo al Parlamento. Al contempo, però, come è stato messo in luce anche da numerosi colleghi, la data fissata avrebbe in un certo qual modo legato le mani ai giudici costituzionali che tornando sui propri passi potrebbero pregiudicare la stessa credibilità e forza della Corte. I fatti di questa estate cambiano però forse le condizioni, rendendo a mio avviso abbastanza probabile un rinvio. La Corte conosce bene la situazione politica di Parlamento e Governo, per cui potrebbe ritenere comprensibile che non si sia riusciti ad approvare una legge nei tempi inizialmente indicati. Una richiesta che è anche giunta l’altro giorno dalla Presidente del Senato.

D’altronde, in Parlamento sono depositate diverse proposte di legge, e sono stati auditi numerosi esperti...
Il problema è che la maggior parte di queste discussioni si è svolta su bozze fortemente eutanasiche, che ignorano le cautele su cui si era soffermata puntualmente la Corte nella sua ordinanza. Questo ha rappresentato un punto di attrito all’interno della precedente maggioranza parlamentare, incidendo sulla possibilità di pervenire a un accordo. In questo senso, le nuove dinamiche politiche portate dall’accordo tra M5s e PD potrebbero invece fornire un terreno favorevole per l’approvazione di un testo normativo, grazie alla convergenza più stretta su tali tematiche favorita dalla dichiarata prossimità ideologica tra i due partiti.

Ma non sarebbe bastato recepire i suggerimenti rivolti dalla Corte al Parlamento nell’ordinanza 207 dello scorso ottobre?
Molti erano gli scenari che si potevano aprire dopo la decisione della Corte, molte le possibili risposte del Parlamento. La strada dell’approvazione di una legge che fosse la copia carbone dell’ordinanza della Corte era indubbiamente una di esse. Nei fatti però questo non è avvenuto, tanto che, come accennato prima, le proposte di legge presentate alla discussione parlamentare per lo più eccedevano i confini posti dalla Corte o, al contrario, rimarcavano la scelta di non introdurre nell’ordinamento alcuna forma di assistenza al suicidio. In ogni caso, ricalcare i suggerimenti della Corte (organo giurisdizionale) all’interno di un atto legislativo non sarebbe stata necessariamente l’opzione più semplice. Non si tratta infatti di una operazione così immediata come possa apparire di primo acchito. Le stesse indicazioni fornite dalla Corte avrebbero comunque dovuto attraversare il dibattito parlamentare per acquisire un effettivo contenuto.

Nello specifico, cosa dovrebbe essere discusso?
Per esempio, la proceduralizzazione dell’assistenza al suicidio in ambito ospedaliero, oppure la possibile previsione dell’obiezione di coscienza e delle condizioni per il suo l’esercizio, eccetera. Oltre a ciò, le nuove disposizioni devono sempre coordinarsi con il quadro normativo esistente richiedendo un intervento di contestualizzazione e armonizzazione. Si pensi, nel caso di specie, al coordinamento con la legge sulle disposizioni anticipate di trattamento come anche con la legge sulle cure palliative. Tutti aspetti che, probabile espressione delle diverse sensibilità presenti in Consulta, si proiettano inevitabilmente ed esponenzialmente all’interno della molteplicità di visioni presenti nel Parlamento.

Un principio sembra però chiaro: per la Consulta, Fabiano Antoniani aveva diritto di morire quando e come voleva. Idem per chi è nel suo stesso stato... Vero. Ed è proprio questo, a mio giudizio, il passaggio più critico della decisione della Corte. Soprattutto laddove questa affermazione viene giustificata instaurando un parallelismo tra coloro che hanno il diritto di rifiutare un trattamento sanitario, ancorché salvavita, e coloro che invece invocano il diritto a che un soggetto terzo intervenga attiva- mente per provocare la morte o aiutare nel provocare la morte del paziente. Affermare giuridicamente l’esistenza di un tale diritto mi sembra irrealistico nel nostro contesto ordinamentale.

In che senso?
Le rispondo con un’altra domanda: è proprio vero che la morte mi appartiene?

Dipende dal vissuto e dalle condizioni dei singoli...
È un pensiero ricorrente che però non mi trova del tutto d’accordo. Il fatto che la morte non mi appartenga ha un duplice risvolto. Innanzitutto, sul piano esperienziale, la scelta non riguarda solo me stesso, perché uccidersi o farsi uccidere presuppone obbligatoriamente la rottura di relazioni. Bisogna pensare a tutto ciò che esiste tra me e la morte, un universo tutt’altro che informe e spopolato. In secondo luogo, questo ha un risvolto rilevante anche in ambito giuridico. Obiezione tipica che viene spesso mossa contro chi sollevi dubbi sulla liceità dell’assistenza al suicidio è che l’ordinamento ha deciso di non sanzionare il suicidio e il tentato suicidio. Ben si comprendono le ragioni di una simile scelta. Diverso però dal caso del tentato suicida è il caso di chi aiuti attivamente un altro soggetto a procurarsi la morte o gliela procuri dietro suo consenso, come espressione di un diritto.

Qual è la differenza?
Affermare l’esistenza di un diritto implica prevedere un corrispondente dovere in capo a un altro soggetto che dovrà tenere un comportamento negativo (lasciare che io realizzi quel mio diritto) o, in taluni casi, un vero e proprio comportamento attivo. Affermare l’esistenza di un diritto alla 'morte rapida' significa creare giuridicamente un dovere in capo a taluni soggetti (come i medici) che sono vincolati per legge a porre in essere un comportamento finalizzato a procurare la morte.

C’è il problema del libero arbitrio...
Sì, ma è davvero libera una persona che decide il proprio autoannientamento? È così semplice accertare questa libertà? Riusciamo a costruire una procedura che sia in grado di consegnarci la certezza che la scelta fatta dal paziente sia una scelta non inficiata da un qualsivoglia condizionamento, tenendo conto anche degli abusi e delle pressioni che il singolo può subire (anche indirettamente) verso l’opzione del farsi da parte? E anche qualora ci riuscissimo, bisogna ricordare che, sotto il profilo giuridico, l’autodeterminazione non è la norma ultima nella tutela dei diritti. Nessuno nega che la libertà del singolo sia un asse portante del nostro ordinamento ma, allo stesso tempo, non si può negare che vi siano altri beni fondamentali su cui si costruisce quello stesso sistema giuridico.

Per lei, dunque, qual è oggi la vera urgenza del fine vita?
Penso che per prima cosa bisognerebbe concentrarsi sulla tutela dei deboli, dando finalmente attuazione alle norme sulle cure palliative e sostenendo anche economicamente e attraverso servizi chi vive in una condizione di fragilità. Una condizione che può portare a percepire la propria esistenza come un peso per i propri cari e, quindi, la morte come un alleviamento di tali sofferenze.