Vidas. Nell’hospice la risposta alla malattia inguaribile c’è: la cura della persona
Un momento dell'attività di musicoterapia a Casa Vidas
Aspetta sul balcone di casa Vidas e fissa i disegni che il fumo spennella in cielo. Al sole un po’ così di questo pomeriggio milanese possono ricordare quelli del temeki che fumavano i suoi operai, mentre si costruiva la grande centrale, laggiù in Kazakhstan. Oppure le nuvole evanescenti di certe mattinate siberiane. Cantieri e volti tagliati, dal freddo e dal caldo; discorsi in lingue incomprensibili e tanta fatica, ben pagata. Ricordi messi in fila come le fotografie che riordina adesso, in questo letto di ospedale. «I ricordi sono importanti – è la prima cosa che racconta Franco – così come certi discorsi, che faccio con gli altri ammalati, e che da giovani non facevamo mai». Sul dolore, sulla morte o sul senso della vita? Non risponde, e ti guarda con simpatico compatimento. Che domande fai, siamo in un hospice.
Franco fuma. Non rientra nella terapia prescritta dall’oncologo. Se avesse davvero un effetto rilassante non servirebbe il cerotto con la morfina. Invece lui fuma. D’altronde, se non fosse per quel dolore ai femori mica sarebbe qui. Non sembra malato, semmai contrariato. Un po’ come Ivan Il’ic. Se il carcinoma non avesse aggredito le ossa, e d’un tratto Franco si fosse sentito come il protagonista del romanzo di Tolstoj, limitato da un male invisibile e incomprensibile, ora lo incontreremmo al lavoro in un cantiere bollente, sotto il sole, quello vero che arde e acceca, nel Golfo Persico. Tra pozzi e narghilè. «Vivo in Umbria perché mi piace, ma sono nato e cresciuto a pochi chilometri da qui, tra Monza e Milano» ci spiega il paziente cinquantottenne di una delle strutture più conosciute del Nord Italia per l’assistenza ai malati inguaribili. Un paziente particolare. Franco è particolare. Non solo perché la malattia del nostro Il’ic procede con la lentezza dei romanzi russi, e neppure perché, al contrario del personaggio di Tolstoj, lui non ha per nulla in uggia il prossimo. Particolare perché Franco nasce geometra per poi girare il mondo, senza fermarsi mai. Ama talmente le sfide che, avendo visitato per caso la casa museo di Rubens, è diventato copista, uno di quei pittori che sanno riprodurre i capolavori dei grandi artisti passati. «Ho iniziato da Caravaggio», e ci mostra la sua Cena di Emmaus. «Non sono molti i malati che reagiscono così bene» ammette Maura Degl’Innocenti, medico palliativista, «così come sono molti, invece, coloro che vengono ricoverati qui anche se non sono in condizioni gravissime ma perché le loro patologie diventano incompatibili con la vita domestica, vuoi perché richiedono un’assistenza continua, vuoi perché la malattia rende rischiosa anche una banale caduta».
Quartiere Bonola, periferia di Milano. A Casa Vidas, l’hospice per adulti della organizzazione creata da Giovanna Cavazzoni, vive una ventina di pazienti come Franco. Ogni giorno vengono assistiti oltre 250 malati, uomini e donne. «Il nostro punto di forza – spiega la direttrice sociosanitaria Giada Lonati – è l’osmosi tra i setting dei diversi servizi di cure palliative che gestiamo». Vidas è famosa per l’assistenza domiciliare ai malati di cancro. A partire dagli anni Ottanta, quando lo stigma per i tumori era ancora più tignoso, ha inventato “l’ospedale in casa” che garantisce un’assistenza quotidiana a chi è circondato da familiari e caregiver. «In una città come Milano – commenta Degl’Innocenti – la disgregazione familiare e la presenza di tante persone sole ci impone di ridisegnare il servizio». Nasce anche per questa ragione il day hospice, alternativo – anche solo temporaneamente – al ricovero. Dal 2015 è attivo un servizio domiciliare pediatrico; la Casa Sollievo Bimbi con il Day Hospice pediatrico sorgono a due passi. Vidas eroga cure palliative gratuite a 2.200 persone ogni anno, assicurando h24 l’assistenza o la reperibilità degli operatori. Un’attività che costa circa 16 milioni di euro, finanziati dalla Regione Lombardia per circa un terzo e per il resto dall’organizzazione, destinataria di lasciti e donazioni. La qualità e intensità assistenziale che si nota in questi ambienti si spiega solo così.
«Non ce la faremmo da soli e non ce la faremo mai da soli – mette le mani avanti la Lonati – perché la consapevolezza dell’importanza dell’accompagnamento al fine vita sta crescendo, ma cresce in parallelo anche la domanda. Si allunga la vita, aumentano i malati e la rete sociale e familiare è sempre più povera». Lonati è una sostenitrice del lavoro in équipe ed è contraria alla medicalizzazione esasperata delle cure ai malati terminali. Nel suo approccio al fine vita l’eutanasia non è contemplata perché «non lo consente la legge, e certamente non è l’unica risposta che può dare un medico», puntualizza. La stessa sedazione profonda, precisa, «non va mai confusa con il suicidio assistito. Sono diversi i farmaci usati ed è diverso l’esito, nel senso che la sedazione può portare al decesso in uno o due giorni mentre la morte volontaria medicalmente assistita si realizzerebbe in mezz’ora. Ma soprattutto è diversa l’intenzione che conduce l’intervento del medico nell’uno e nell’altro caso. La sedazione non è diretta a provocare la morte ma a togliere la sofferenza».
Giada sente che il suo “luogo di cura” è accanto all’uomo che soffre. Distinguere la motivazione che deve presiedere l’amore per quella persona è un po’ come tentare di imbrigliare le volute di fumo della sigaretta di Franco. «Mi trovavo in assistenza domiciliare con un paziente giovane e depresso – racconta la direttrice –. A un certo punto mi confessa “non posso più avere nessun progetto”. E guarda la finestra. Ho percepito il rischio. Abbiamo parlato. Non è successo nulla, ma quel giorno ho compreso quale fosse, esattamente, il mio “luogo di cura”. A fianco di quella sofferenza».
Esperienze che, meglio della norma positiva e più dei dibattiti sull’eutanasia, descrivono il ruolo del medico. «Non è facile far capire queste cose in una società come la nostra – sottolinea Lonati – e gli stessi malati arrivano qui senza la consapevolezza di essere meritevoli di uno sguardo amorevole, perché si vedono devastati dalla malattia e si sentono ormai estranei a una società che ci educa alla vanità in modo estremo». Tornano in mente «certi discorsi che da giovani non facevamo mai», come diceva Franco. Lo sguardo lo cerca sul terrazzo, ma prima di lui intercetta il lampo della brace. Ha acceso un’altra sigaretta.