Il caso di Mario. Menichelli: parole nuove per la sofferenza, no al suicidio assistito
Il cardinale Edoardo Menichelli, aercivescovo emerito di Ancona-Osimo e assistente ecclesiastico nazionale dell'Associazione medici cattolici (Amci)
«Di fronte a una situazione così drammatica si incrociano situazioni personali molto delicate che richiederebbero quasi un silenzio»: è la prima riflessione del cardinale Edoardo Menichelli, arcivescovo emerito di Ancona-Osimo e assistente nazionale dei Medici cattolici, sulla vicenda marchigiana che vede avvicinarsi la possibilità di suicidio assistito per "Mario", 43enne tetraplegico, caso emerso proprio nelle Marche. Sul contenzioso attivato dall’Associazione radicale Luca Coscioni, al quale il paziente si è rivolto, con l’Azienda sanitaria, sono intervenuti il Comitato etico regionale, esprimendo una serie di perplessità, e la stessa giunta regionale, annunciando un ulteriore ricorso all’autorità giudiziaria. «C’è di mezzo la malattia, la sofferenza, il senso della vita – afferma Menichelli –, ci sono responsabilità personali, familiari, sociali, c’è la coscienza, una psicologia ferita, allarmata. E c’è anche, attorno, una cultura che fa fatica a cogliere la dimensione di un problema. Tutto ciò richiede rispetto, silenzio, anche preghiera. È necessario che qualcuno, Dio, consoli la famiglia e questa cara persona»..
Siamo a un bivio?
È un passo pericoloso. Il problema da risolvere è: questa benedetta vita, questo dono irripetibile e splendido che abbiamo, quali caratteristiche ha? Si presenta non programmata, non richiesta. Dobbiamo scoprire dalla vita due atteggiamenti accanto alla sua unicità: c’è la sua inviolabilità, che non faccio fatica a chiamare sacralità e indisponibilità. Per essere definita non ha bisogno di laicità e fede. Accanto alla sacralità, anche laica, dobbiamo ricordare il comandamento: non uccidere. Dobbiamo anche rispondere a un’altra domanda fondamentale: tuo fratello dov’è? La vita va accolta, ma deve trovare un grembo culturale, spirituale, sociale per difenderla. Ecco perché siamo davanti a uno spettro.
Cosa pensa della soddisfazione, quasi entusiasta, di chi ha condotto questa battaglia?
Mi piacerebbe incontrare questa persona che sta soffrendo. Stiamo vivendo una sorta di esondazione verso territori etici sui quali nessun potere ha una specifica competenza. Lo stesso Dio non ci preclude alcuna strada, tantomeno quella del suicidio, ma affida tutto alla corresponsabilità della nostra comunità.
C’è un limite su questa strada?
Il più grande peccato di questo tempo è la tentazione di diventare padroni della vita. Se la accettiamo, comincio a farmi il segno della croce per salvarmi, ma dobbiamo ragionare insieme su come fare per non abbandonare la vita alla solitudine più profonda, e riflettere su due parole: inguaribilità e incurabilità. C’è sempre una minima possibilità di cura, sollievo, accompagno, tenerezza, vicinanza.
Lei segue da anni il mondo medico: come ha visto modificarsi il modo di affrontare il fine vita?
Occorre cominciare a ragionare sulle cose che preoccupano. Ho visto toccare i temi dell’onnipotenza scientifica. Vedo anche attenzione sulla "religione dell’emozione": la vita è piena di emozioni, ma anche di verità, libertà e sapienza. Siamo chiamati ad assumere un atteggiamento saggio e sapiente. Significa non affidarci all’onnipotenza scientifica, che annebbia i confini fra bene e male. Dobbiamo anche chiederci se nella società in cui viviamo, in questa società, c’è voglia di includere il prossimo, accompagnare le persone in difficoltà, o – come spesso accade – non c’è mai tempo per le cose davvero importanti. Il problema degli anziani immobilizzati a letto è sempre esistito. Al problema, nel tempo, sono state date risposte diverse. Occorre, oggi, recuperare una determinazione spirituale, sociale, inclusiva. Oggi siamo davvero invitati a capire se esistono gli altri o se occorre solo soddisfare noi stessi e le nostre esigenze.
La comunità cristiana è attrezzata ad affrontare momenti come quello che stiamo vivendo, e questa stagione?
La vita è sacra e intoccabile: se cominciamo a mettere in discussione questo valore, davvero non sappiamo dove andremo a finire. Sulla sofferenza vorrei dire: noi cristiani non siamo "doloristi" di professione ma consapevoli che vita senza dolore non c’è. Occorre allora recuperare la capacità di personalizzare la croce, riscoprendo una dimensione che ci permetta di viverla e accettarla. Un percorso che ha bisogno di equilibrio e di tempo. Mi confortano, tuttavia, le tante esperienze di carità e accoglienza che circondano e accolgono la sofferenza in tante famiglie, parrocchie, città. Spesso il rumore della cronaca, che avvolge queste vicende, rischia di narcotizzare quanto di buono esiste, e il senso di una comunità che cresce.