Il testimone. «Sono malato incurabile di Sla. Ma sempre persona»
Roberto aveva otto anni, ed era bellissimo, intelligentissimo e terribile. Era il secondo di due fratelli, entrambi spastici, ma a differenza del maggiore era intrattabile, e faceva impazzire chiunque gli si avvicinasse che non fossero i suoi genitori. Nessuno capiva perché. Lo conobbi nella prima metà degli anni Settanta a Lourdes, dove per molti anni ho fatto il volontario. Io allora di anni ne avevo diciotto. Lo vidi tutto solo nel suo letto della camerata, così mi avvicinai e iniziai a dire due parole e a scherzare. Lui non diceva nulla, tanto che pensai che non parlasse, ma non mi staccava gli occhi di dosso. Ogni tanto sorrideva. A un certo punto gli chiesi se volesse fare una passeggiata, e mi fece di sì con la testa. Impiegai un sacco di tempo a vestirlo, perché era talmente rigido che era quasi impossibile piegargli braccia e gambe, e per lo stesso motivo lo sistemai su una barella.
Era la prima volta che usciva dall’Asile, come avrei scoperto un’ora dopo riconsegnando Roberto ai suoi preoccupatissimi genitori. C’era un bel sole e ce ne andammo a zonzo per la prateria, passando il ponte sul Gave. Mi sedetti su una panchina a riposare, e a un certo punto una signora che passava si fermò a guardare Roberto ostentando una faccia grondante afflizione, e fingendo di asciugare una lacrima che non c’era. Roberto la guardò per un istante, poi si girò verso di me e mi disse, con la sua voce affaticata: «Ma che, non ha mai visto un bambino malato?».
Oggi nei panni di Roberto ci sono io. Ho un’altra età, e un’altra malattia che mi inchioda, ormai da tre anni, incurabile. Ma, come Roberto che rivendicava sempre il suo essere bambino, anch’io una delle prime cose che ho imparato è quanto sia importante essere sempre e comunque visti come persone, non come "malati", quasi fossimo altro rispetto all’umanità.