Difesa della vita. Malati e disabili nessuno resti più solo
«Perché è così difficile capire i bisogni di tante persone in situazione di gravità, perché questa diffidenza degli amministratori... per dare più respiro, lenimento, dignità?». Loris Bertocco, disabile 59enne, al culmine dell’esasperazione ha deciso di porre fine alla sua vita in una clinica in Svizzera, una settimana fa. Le domande sul bisogno di assistenza che ha lasciato scritte in una lettera-testamento, però, restano e pesano come macigni, anche se sembrano già rimosse dopo un primo tentativo di uso strumentale per altri fini. E impongono una riflessione su quale sia il modello sociale al quale intendiamo lavorare.
«Compito delle società civili – mette in guardia don Massimo Angelelli, nuovo direttore dell’Ufficio Cei per la pastorale della salute – è riscoprire una certa capacità di farsi carico gli uni degli altri. È una questione di responsabilità sociale e collettiva». Dunque «accoglienza e accompagnamento sono necessarie perché nessuno resti solo. Abbiamo bisogno di strutture per le situazioni più difficili e gravi, in cui le persone possano essere accompagnate con dignità. E poi serve aiuto per tutte quelle famiglie che accolgono a domicilio persone con disabilità», sobbarcandosi costi gravosi. «Ci sono responsabilità delle istituzioni, e in questi casi non possiamo continuare a soprassedere», aggiunge don Carmine Arice, superiore generale della Società dei sacerdoti di san Giuseppe Benedetto Cottolengo. D’altro canto, «la richiesta di morte è una sconfitta per tutta la comunità. Noi talvolta – prosegue Arice – consideriamo solo il dolore fisico, ma non quello spirituale. E invece, generalmente ciò che getta nella disperazione è proprio l’assenza di relazioni significative. Se non accompagniamo la persona è chiaro che poi si arriva anche alla disperazione». «Quello di cui ha bisogno il nostro Paese, e che è ancora carente, sono gli hospice – sottolinea Ilaria Ciancaleoni Bartoli, direttore di Omar, Osservatorio malattie rare –. C’è la possibilità di mandare il personale a casa, ma a volte si ricorre in maniera impropria al ricovero ospedaliero, sistema organizzato per accudire una persona solo per un determinato periodo per poi rimandarla a casa». Dove ad attenderla spesso ci sono persone anziane oppure economicamente non in grado di farsene carico. «La famiglia è il centro degli affetti – aggiunge Bartoli –, se la si fa diventare solo centro di cura anche le relazioni si snaturano e il paziente ha l’impressione di essere un peso». Lo sa bene Giuseppe Casale, coordinatore sanitario di Antea onlus, l’associazione nata trent’anni fa a Roma per garantire assistenza gratuita a domicilio ai pazienti in fase avanzata di malattia, e attiva anche in un hospice con 25 stanze. «Con le cure palliative – precisa Casale – aiutiamo le persone a vivere bene, ascoltando le necessità del paziente cerchiamo di valorizzarle, prendendoci cura di tutti quei sintomi che sono fastidiosi e che limitano anche i rapporti sociali. È una piccola rivoluzione: riportiamo cioè al centro della cura non la malattia ma la persona nella sua totalità». Il compito sarebbe più facile se il paziente e la famiglia fossero guidati e accompagnati nella scelta delle cure. «Bisognerebbe realizzare – dettaglia Casale – una rete in cui l’ospedale e tutta l’attività a domicilio camminino in maniera sincrona, conoscendo l’uno ciò che fa l’altro». Tuttavia, benché sia stata prevista anche dalla legge 38 e nel Lazio esistano persino alcune norme per attuarla, «ancora è difficile metterla in piedi».
«Occorre sensibilizzare le istituzioni centrali e locali», è il pensiero di Stefania Bastianello, responsabile della formazione e del centro di ascolto di Aisla, l’Associazione italiana Sclerosi laterale amiotrofica. «Come denunciava Loris, c’è una carenza di contributi e di aiuti per l’assistenza domiciliare. Le persone invece devono poter stare a casa propria, se è ciò che desiderano. La soluzione di un ricovero, pur estrema, per alcuni non è compatibile con il concetto di dignità». Per tutti coloro che devono fare i conti con patologie che compromettono le funzioni vitali serve in ogni caso un ascolto competente. «Una disabilità grave spaventa – aggiunge Bastianello –. È necessaria perciò una formazione appropriata degli operatori a tutti i livelli: medici, infermieri, assistenti». Intanto, pazienti e familiari continuano ad affidarsi all’impegno dei volontari. Come quelli messi in campo dall’Aism, l’Associazione Italiana Sclerosi Multipla. «Siamo presenti su tutto il territorio nazionale con sezioni, gruppi operativi, 10mila volontari, più quelli del servizio civile – sottolinea la presidente Angela Martino –. Ma è chiaro che non basta l’associazionismo per dare risposte alle situazioni di maggiore gravità, che le istituzioni devono affrontare con rigore. Non possiamo pensare che il piccolo emolumento concesso alle persone con disabilità gravi aiuti a scegliere la vita piuttosto che la morte. È importante dare risposte concrete e immediate, na questo deve dipendere da una messa a sistema di una rete valida per tutta la comunità. Perché nessuno deve essere lasciato solo».