La storia. Le tre vite di Omar, in viaggio oltre la Sla
Omar, per ora, ha tre vite. La prima è iniziata con la nascita, il 2 ottobre del 1973, come avviene a tutti. Ma la seconda «è stata tutta colpa del piede», una mattina del 2003 quando, spensierato 29enne laureato in Scienze politiche e maestro di chitarra classica, inciampò cadendo sui gradini di casa. Si rialzò subito per correre a scuola, ma ormai era fatta: in apparenza non era successo nulla, in realtà era la fine della sua prima vita e l’esordio della Sla, Sclerosi laterale amiotrofica. Una sentenza di morte e una diagnosi feroce: massimo due anni di vita. «Sapendo di avere ancora poco tempo, mi sono buttato su tutto ciò che presto non avrei più potuto fare: suonare la chitarra nei concerti, viaggiare, consultare più dottori possibile per capire la malattia. Poi, quattro anni dopo, la difficile decisione».
Il bivio era terribile: chiudere definitivamente con la vita, o invece iniziare la terza. Una scelta che solo lui poteva fare, e da solo. Accettare la tracheostomia e l’inserimento in gola di un respiratore, o invece morire naturalmente. «Ho vissuto una notte turbolenta e insonne», racconta oggi attraverso la voce meccanica del comunicatore ottico fissato sopra il suo letto. Tic tic tic tic, il ticchettio regolare e cadenzato riempie il silenzio della stanza, a ogni tic la pupilla di Omar ha fissato una lettera sul monitor e pian piano le frasi prendono forma, diventando voce quando le ha concluse. Di sottofondo un altro rumore non smette mai, è l’ansimare ovattato, “subacqueo”, del respiratore, e il tutto ha un effetto ipnotico in chi aspetta le risposte di Omar, ma la sua mente lavora alacre e ha mille cose da dire. «Parlo di difficile decisione perché all’inizio, d’istinto, non volevo farmi tracheostomizzare – dice –, soprattutto non accettavo di diventare un peso per i miei genitori. Ne ho parlato con loro, che mi hanno risposto in un modo indimenticabile...».
Prima di proseguire dobbiamo spiegare perché giovedì 21 aprile ci trovavamo ad Assago in casa di Omar Turati, che vive con la madre Giovanna, 82 anni, e il padre Benito, 85. «Si dibatte tanto di questi casi, ma quando ascolto gli scontri di in tv mi colpisce quanto la mia esperienza sul campo sia diversa dalle teorie – aveva scritto mesi fa ad Avvenire il dottor Massimo Croci, pneumologo e anestesista, da 30 anni impegnato nel rendere migliore la vita dei disabili gravissimi –. Nelle tante case in cui giro vedo un gran bene e vorrei che venisse raccontato». Per anni ha seguito anche Omar. Che ora riprende con il suo tic tic: «Noi ti promettiamo che ti assisteremo fino all’ultimo giorno della tua o della nostra vita», gli risposero i genitori di fronte al bivio. Nel luglio 2003 la Sla aveva portato disperazione anche a loro, proprio nei giorni in cui invece l’altra figlia portava la gioia del parto di due gemelli, oggi 18enni esattamente come 18enne è la Sla di Omar, nati negli stessi giorni. «Questa loro frase è stata molto importante – continua Omar, mentre la madre con gesti sicuri gli cambia la sacca della Peg, la nutrizione enterale – ma in quella drammatica notte di riflessione mi rombavano in testa altre due frasi tra loro opposte: quella di Oscar Soresini, chirurgo d’urgenza e grande amico dai tempi delle elementari, e quella di un’infermiera con cui avevo stretto un buon rapporto. La prima diceva: Omar, a questo punto è meglio anticipare i tempi, prima fai la tracheostomia e meno condizione fisica perderai. La seconda invece diceva: scegli solo ciò che ha senso per te, non per i tuoi genitori, perché quando loro moriranno potresti trovarti solo e con una vita che non hai scelto. Oggi devo dire grazie a entrambi, perché entrambi avevano ragione». Ma questo è il senno di poi, quella notte si trattava di decidere e le ore verso il mattino si facevano drammatiche. «Ad un tratto il suono delle campane della chiesa dell’ospedale mi ha spalancato gli occhi e le orecchie. In quel momento ho deciso di cominciare la terza vita: per la promessa fatta dai miei genitori e per continuare a sentire la mia amata musica».
La seconda vita era durata 4 anni, il doppio di quanti la diagnosi gliene aveva concessi per morire, e in quel tempo aveva perso quasi tutti i movimenti, «ma il cervello aveva continuato a correre all’impazzata», ricorda Omar, che intanto restava agnostico come suo padre. Adesso, se non poteva più suonare la chitarra – il dolore più grande – poteva però comporre testi e canzoni, lasciando prorompere la poesia e l’armonia che aveva dentro. L’acronimo Sla diventava così il suo “marchio di fabbrica”: «Solo Libera l’Anima». E’ il titolo di un libro scritto anni fa con la giornalista Luisa Bove, prefazione del cardinale Carlo Maria Martini, e anche di una canzone indimenticabile, più che un tormentone un tormento che non ti lascia più tranquillo. «Vorrei parlar con Dio e chiedergli se c’è, perché tra tanta gente ha scelto proprio me...», ce la fa sentire su YouTube. È il “perché?” gridato di fronte a un’ingiustizia subìta a 29 anni, poco prima di un matrimonio che non avverrà più. Ma qual è il Suo disegno in una croce di legno che pesa tanto e che io porto dentro?... «Il tempo della rabbia è passato – commenta Omar –, il pensiero di cosa sarebbe stata la mia vita senza la Sla si accende e si spegne costantemente in me come un’insegna luminosa al neon, però adesso lei c’è e difficilmente se ne andrà. Devo solo sperare che non mi faccia troppo male». Lo scrive anche nel libro: ha smesso di attendere un miracolo dalla scienza, «piuttosto punto tutto sul bicchiere mezzo pieno che ho, ogni cosa che ancora riesco a fare la faccio, tutte le altre sono storia passata e rimpiangerle sarebbe tempo perso». Un equilibrio che ha raggiunto grazie al suo padre spirituale che lui chiama padre Carlo, quel cardinale Martini con cui dal settembre 2009 aveva stretto un’amicizia profonda. «Ricordo il giorno in cui entrò la prima volta in questa casa – interviene mamma Giovanna, ex catechista in pensione – un uomo alto e imponente, un principe della Chiesa». Su YouTube c’è ancora l’intervista rilasciata a La7 da Martini (già malato) in cui parla di Omar, «un ragazzo immobile da anni, però ha una speranza incredibile e ha interpretato la formula Sla come "Solo libera l’anima", quindi prendendo da questa grande prova tutto il positivo. Mi ha molto edificato, e aiuta anche me».
La fede nella vita di Omar spingeva da tanto per entrare, ma c’era voluto del tempo. «Nel 2004 la Via Crucis di papa Wojtyla gravemente malato e piegato su se stesso mi aveva commosso, ma ancora la scintilla era lontana». Finché il 2 ottobre del 2007, giorno del suo compleanno, già trachestomizzato da due mesi, rischiò seriamente di morire soffocato. «Quella notte ho cominciato a parlare con Dio». Nasceva in quel momento il testo della prima canzone, quella che all’inizio grida “perché?”, ma poi finisce così: «Adesso vedo meglio e andarmene non voglio. Se è la Sua volontà parliamone e chissà...». «Incontrare Martini e leggere i suoi libri mi ha reso un cristiano. Oggi ringrazio sinceramente il Cielo per questi 18 anni di vita regalata, così come ringrazio la mia famiglia ancora tutta in pista e le tante persone che camminano accanto a noi, amici, parenti, dottori, operatori della Fondazione Maddalena Grassi che mi seguono da 14 anni...». Non giudica chi ha fatto una scelta diversa dalla sua e al bivio ha preso la strada della morte, «rispetto chi non ha accanto due genitori straordinari come i miei – sottolinea –, da questo punto di vista sono stato fortunato, anche se fatico a usare questa parola». Sopra il letto una telecamerina permette di controllarlo anche la notte, ma Giovanna non ne ha bisogno, ormai sente il suo respiro anche dall’altra stanza – spiega lei. Serena e dinamica, trae la forza dal figlio, «è lui che carica noi di quelle che sono le bellezze della vita. Alla diagnosi anche noi genitori siamo stati travolti dalla rabbia e dal pianto, ma poi mi sono chiesta: di cosa ha bisogno Omar adesso? Di disperazione? Lo psicologo dopo poche sedute mi ha detto "solo lei può farcela, torni a casa, lì troverà la sua forza". Oggi non piango più, rido e scherzo, quando ho saputo di aver dato a Omar la serenità di vivere anziché di morire ho capito di avercela fatta». Per i suoi 82 anni Omar le ha dedicato un testo semiserio in cui la chiama «marma», la mamma di marmo: «Non capisco come fai a essere sempre presente: ti chiamo alle 4 e ci 6, mi sveglio alle 10 e ci 6, voglio ascoltare buona musica e ci 6...». Lei sorride, da lui accetta tutto, anche i frequenti rimbrotti, le basta accontentarlo e poi è felice. «Da tanti anni sono abituata ad alzarmi alle 4 quando lui mi chiama, poi non torno più a letto. Allora ho aperto il mio sipario, lì c’è la mia libertà, il mio tempo privato, le ore in cui leggo tanti libri e sto bene». Un equilibrio in cui il marito Benito si inserisce in perfetta simbiosi.
Eppure guardi Omar inchiodato a quel letto e la domanda è naturale: non si è mai pentito di una scelta tanto pesante? «Per il momento no – risponde sincero –, però le vite cambiano in un attimo, e forse senza i miei genitori, depresso e incapace di ragionare come adesso, chiederei di morire». Dunque se la notte del bivio invece di loro avesse avuto accanto persone sbagliate, che gli avessero indicato la via della morte e offerto un “aiuto” in tal senso, avrebbe potuto scegliere di farla finita? «È una domanda cruciale... ha ragione, il contesto in cui si vive e le persone che si frequentano sono fondamentali per decidere se vivere o morire. Però reputo la legge sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento indispensabile affinché siano veramente ascoltati solo i malati, e i dottori fantastici come Massimo Croci».
Croci sorride. È lui che lo aiuterà a scrivere le sue Dat previste dalla legge. Il giorno in cui la Sla dovesse spegnere ogni sua cognizione di vita, la persona prescelta (sua madre forse, forse il dottor Croci) dirà al posto suo se staccare il respiratore. Nulla a che vedere con l’eutanasia, ma un’assicurazione contro l’accanimento terapeutico. «Comunque per ora le foto che vedete alle pareti vi dicono quanto la mia terza vita sia splendida. E per certi versi più ricca della prima, perché convivere con l’idea di poter morire domani mi fa apprezzare l’oggi fino all’ultima goccia», sorride (stranamente la Sla non solo lo ha preservato così a lungo, ma gli ha lasciato anche il sorriso). Il che si traduce nel saper sempre godere delle piccole cose: da anni il cibo gli entra direttamente nello stomaco con una cannula, «ma se è festa mi concedo in bocca un cucchiaino di caffè o di vino, mi piace ancora molto».
Gli chiediamo se ha sofferto quando dj Fabo ha chiesto il suicidio assistito, Omar prova a mettersi nei suoi panni e ha un brivido, «ho sofferto, sì, ma se perdessi anche la vista come lui mi sentirei impazzire, forse non ce la farei». E se quando era sano gli avessero mostrato in una sfera di cristallo l’Omar inchiodato al letto, non si sarebbe sentito impazzire? Non avrebbe detto: piuttosto morto? «Altra domanda cruciale. Sinceramente non lo so... Ma forse se nella sfera avessi visto l’immagine del 21 aprile 2022 avrei detto sì, voglio vivere», sorride di nuovo. Perché questa non è solo un’intervista, per lui, ma un giorno in cui la voce finalmente è data a loro, i protagonisti della Sla, «di solito si parla di noi ma non con noi. Oggi mi sento realizzato».
Della morte non ha paura, della solitudine sì, tanta. «Morire mi dispiacerebbe per i miei genitori e per i sogni che devo ancora realizzare, scrivere altre canzoni, arrivare a 50 anni, vedere la fine di questa maledetta guerra», che dal suo osservatorio è ancora più assurda: lui strappa uno ad uno i respiri per restare in vita, e altrove si massacrano a migliaia. È l’uomo che si erge a Dio, proprio il tema di un’altra sua canzone travolgente, «Facciamo di tutto»: «Facciamo di tutto per controllare tutto, ma c’è sempre un dettaglio che omettiamo per sbaglio...». La vita non ci appartiene, intende dire Omar, è inutile che ci dibattiamo. La sua canzone più famosa, «Siamo tutti remi», è prodotta dalla Fondazione Lucio Dalla e cantata in coro dagli artisti di Area Sanremo, ma nonostante il successo Omar non perde la modestia e l’autoironia: «Sono uno che lavora in smart working e in part time!».
Sono passate ore, migliaia di tic tic hanno tracciato una trama immensa. Qual è, Omar, il messaggio finale, la morale di tutta questa storia? «Aiutateci a morire se non ce la facciamo più, ma prima aiutateci a vivere, perché per tutti è un dolore rinunciare alla propria vita. E ricordate: qualunque sia la condizione fisica, la qualità della vita dipende dalla qualità dell’amore che si dà, da quello che si riceve, e dalla possibilità di vivere una straordinaria libertà dell’anima».