Vita

La stanza accanto. Lo spot patinato di Almodóvar che vuole parlare a Hollywood

Angela Calvini mercoledì 11 settembre 2024

Le attrici Tilda Swinton e Julianne Moore protagoniste del film "The Room Next Door" di Pedro Almodovar

Il trionfo di Pedro Almodóvar all’81esima Mostra del cinema di Venezia era più che scontato, non tanto per motivi artistici quanto ideologici. Perché "The Room Next Door" ("La stanza accanto") che il 7 settembre ha vinto il Leone d’Oro come miglior film, già sulla carta era un predestinato. E questo nonostante i tanti critici che sottovoce al Lido ne parlavano come di una pellicola non eccezionale, salvo poi suonare invece la grancassa alla sua vittoria come manifesto liberal a favore dell’eutanasia. D’altronde la concorrenza non era fenomenale nel concorso principale e quindi Pedro Almodóvar è riuscito a mettere a segno la prima mossa di quella che lui definisce «una svolta» nella sua carriera. Ha lanciato così il suo primo lungometraggio in inglese, ispirato al romanzo "What are you going through" dell’americana Sigrid Nunez su un tema caldo come l’eutanasia, arruolando due star di Hollywood, Tilda Swinton e Julianne Moore, protagoniste di eccezionale bravura.

Si tratta, però, di un film tutto sommato abbastanza convenzionale (e a tratti soporifero), che non rende giustizia allo stile stravagante, colorato e sempre originale, anche quando eccessivo e non condivisibile nei contenuti, dell’Almodóvar spagnolo che ha già affrontato il tema del coma nel complesso Parla con lei (con cui vinse l’Oscar come migliore sceneggiatura nel 2003, dopo aver vinto l’Oscar come miglior film straniero nel 1999 con Tutto su mia madre). "The Room Next Door", che uscirà nelle sale italiane il 5 dicembre, invece odora di patinata operazione a tavolino per aprirsi il mercato nordamericano, quindi mondiale, accarezzando un certo tipo di ideologia che garantisce sostegni importanti e, perché no, l’Oscar della consacrazione (su questo tema ha scritto un'analisi approfondita per Avvenire Armando Fumagalli).

Nel fare il salto nell’anglosfera Almodóvar infatti appiattisce il proprio colorato vitalismo in una estetica snob altoborghese dove, fra attici a Manhattan e splendide ville nei boschi, la scelta di darsi la morte appare quasi fiabesca. Tilda Swinton è un’inviata di guerra affetta da un cancro terminale che chiede a una sua amica scrittrice di successo, Juliane Moore, di accompagnarla, anche se lei è dapprima titubante, nella sua drammatica decisione finale di togliersi la vita. Le due si trasferiranno in una splendida villa in affitto per una sorta di “vacanza” tra alberi e uccellini aspettando il giorno in cui, a sorpresa, la donna malata ingoierà una fantomatica “pillola della morte” trovata sul dark web. Tutto facile, tutto pulito, tutto indolore. Ma questa è la vita vera?

Commuovono, certo, la profonda sofferenza e l’amicizia, i rimpianti della donna malata che non riesce a comunicare con la figlia (ed è la solitudine il vero nodo del dramma), i dialoghi sul senso delle proprie vite, mentre Almodóvar tenta di raccontare la bellezza di ogni attimo dell’esistenza attraverso il colore dell’affetto. Ma sul tema della morte non c’è contraddittorio, i dubbi sono blandi e l’unico contraltare è un odioso poliziotto definito “fondamentalista religioso” pronto a incriminare l’amica compiacente. Mentre il mondo cattolico appare di sfuggita in un flashback piuttosto inutile nella figura di due carmelitani missionari nell’Iraq in fiamme che – viene detto nel film – resistono ai pericoli della guerra solo grazie al loro amore omosessuale. Tralasciando il piccolo particolare che a dare sostegno ai tanti religiosi e religiose che rischiano la vita nel mondo per la pace è l’amore di Cristo.

Comunque nel rovente dibattito politico in corso (e non solo in Italia) sull’eutanasia, il film offre il destro ai promotori di suicidio assistito ed eutanasia per fare propri e rilanciare i reiterati appelli del regista spagnolo in ogni conferenza stampa veneziana e durante la stessa consegna del Leone d’oro per l’adozione «di una legge sull’eutanasia che dovrebbe esistere in tutto il mondo».
Come ha dimostrato anche la presenza al Lido del cardinale Matteo Zuppi, presidente della Cei, la Chiesa insiste per un dialogo sincero col mondo del cinema «soprattutto per ciò che è dalla parte dell’uomo». Perché "The Room Next Door", pur non essendo condivisibile la scelta della protagonista di togliersi la vita, è un film che può far riflettere sul punto di vista di chi sta soffrendo e sull’importanza di essere vicini al malato anche nei momenti più duri. Almodóvar però ha chiuso decisamente la porta in diretta tv. «Dire addio a questo mondo in modo pulito e con dignità è un diritto fondamentale, non è politico ma umano. So – ha dichiarato il 74enne ricevendo il Leone – che va contro ogni credo che intende Dio come unica fonte di vita, ma chiedo ai praticanti di rispettare e non intervenire nelle decisioni individuali. L’essere umano deve essere libero di vivere e di morire quando la vita è insopportabile». Per Almodóvar quella raccontata dal film è la storia di «una donna agonizzante in un mondo agonizzante». E forse è proprio così in una società che promuove il diritto alla morte, piuttosto che quello alla vita.