La stanza accanto. Eutanasia, il film a tesi di Almodóvar: quando il cinema fa politica
Il regista spagnolo Pedro Almodóvar con il Leone d'Oro vinto alla Mostra del Cinema di Venezia per il suo "The Room Next Door"
Nelle dichiarazioni in occasione della consegna del Leone d’Oro a Venezia per il suo discusso film “The Room Next Door” (sarà nelle sale italiane dal 5 dicembre col titolo “La stanza accanto”) il regista spagnolo Pedro Almodóvar ha direttamente collegato, senza giri di parole, il suo film a una battaglia culturale e politica che in Spagna è stata vinta, almeno al momento, e che lui vorrebbe fosse vinta anche in altri Paesi: quella sull’eutanasia legale.
La cosa non ci deve stupire o scandalizzare perché il cinema è sempre stato un mezzo potente per incidere sulla mentalità delle persone, nel bene (quanto ha fatto il cinema americano contro il razzismo...) o nel male, spesso proponendo, come in questo caso, soluzioni semplicistiche e solo apparentemente umane a problemi complessi. Perché tutto nel film di Almodóvar (la sua prima opera in lingua inglese, nata dunque per il mercato americano) sembra facile alla sua protagonista lucidissima, freddissima, pienamente consapevole di sé, che si vuole suicidare (infatti poi una cosa è il suicidio, un’altra l’eutanasia evocata da Almodóvar nelle interviste, cioè decidere di porre termine alla vita di altre persone malate). E se una persona attraversa periodo di estrema debolezza? Se passa per una fase di depressione e ha quella pillola letale di cui parla Almodóvar malauguratamente sottomano?
Nel suo film presentato a Venezia il regista spagnolo racconta la storia di un suicidio, per invocare poi una legge sull’eutanasia. E lo fa con una pellicola che dovrebbe commuovere ma che in realtà è molto meno calda di altri suoi lavori precedenti. E con una confezione patinata e lussuosa, forse omaggio al calibro delle due grandi attrici che lo interpretano, offre una storia assai verbosa e senza vera tensione, che sa troppo di tesi precostituita per coinvolgere davvero.
Non è quindi – come alcuni critici hanno sostenuto – un grande film o un capolavoro. Ma, anche se lo fosse, è soprattutto e anzitutto un’opera a tesi. E visto che di tesi si tratta, Almodóvar ci ricorda anche en passant alcune sue altre “tesi”, mettendo in scena (in un lungo flashback della giornalista protagonista) due eroici sacerdoti carmelitani che rimangono sotto le bombe in Medio Oriente, che però – ci viene detto – sono omosessuali e amanti... (Dei contenuti e del messaggio del film scrive con ampiezza Angela Calvini, inviata di Avvenire a Venezia 2024).
Di film a tesi il Leone d’Oro di Venezia ha buona memoria: solo tre anni fa il premio era andato a “La scelta di Anne” (“L’evenement”), film tratto dal romanzo autobiografico di Annie Ernaux, che narra i tentativi – coronati alla fine da successo – di abortire, fatti dalla protagonista in un’epoca in cui in Francia non c’era ancora la legge sull’aborto. Il film è andato in onda su RaiTre proprio alla vigilia della Mostra del Cinema totalizzando 700.000 spettatori. Seguiamo il punto di vista della protagonista, che non vuole la sua vita di studentessa rovinata dal figlio in arrivo: a lei si oppongono solo persone ipocrite, doppie o legaliste. Non c’è nessuno, per esempio, che provi a farla riflettere sul fatto se quel “qualcosa” che porta in grembo è già un essere umano, molto piccolo. Ma se questa parzialità di visione era forse ancora possibile negli anni ’60, oggi, con i progressi della medicina e della diagnostica per immagini, sostenere ancora che l’aborto sia puramente e semplicemente un diritto della donna è andare contro le evidenze più dirette di quanto ci dice la realtà. Sono convinto però che questo film a tesi, che in Francia è stato acclamato e ha vinto diversi premi, abbia dato una spinta importante alla decisione di Macron di inserire l’aborto come diritto costituzionale solo pochi mesi fa.
Discorso analogo si potrebbe fare per “The Danish Girl” (2015), film che altera pesantemente la storia vera che vorrebbe raccontare, e ha invece diffuso l’idea illusoria che basti una transizione di genere per risolvere i problemi delle disforie sessuali e vivere felici e appagati cambiando nome e identità.
Eppure – si potrebbe obiettare – questi non sono film che incassano le centinaia di milioni o i miliardi che invece totalizzano al botteghino film ottimi nei contenuti come “Inside Out 2”, o molto più leggeri come “Barbie”. Ma qui credo sia utile la recente riflessione offerta dal regista Davide Ferrario sul supplemento letterario del “Corriere della sera”: egli notava stupito, di fronte alle centinaia di migliaia di persone che vanno ai concerti di Taylor Swift, che non aveva mai sentito parlare della cantante, mentre si era accorto che nessuno dei quaranta studenti di un corso di arti visive ai quali faceva una lezione sapeva chi avesse vinto il Festival di Cannes poche settimane prima. Quello che sta succedendo, osservava, è che ci stiamo chiudendo in nicchie culturali che comunicano poco (o nulla) fra di loro. Magari seguiamo appassionatamente qualcosa o qualcuno che però è totalmente sconosciuto ai nostri vicini di casa. Perché questa osservazione ci sembra pertinente al nostro caso? Perché crediamo che con i film citati sopra (e con tanti altri di questo tipo) si sia creata e venga alimentata una circolazione che va dal cinema al sistema dei media ai decisori della politica, le cui priorità e scelte vengono smosse, su sollecitazione dei film e della campagna mediatica che li accompagna, senza necessità che queste opere diventino grandi successi di pubblico (possiamo sbagliare ma non crediamo che il film di Almodóvar lo diventerà). Non a caso Luca Zaia, governatore del Veneto, dopo aver assistito a Venezia alla proiezione di “The Room Next Door”, ha già chiesto a gran voce nelle interviste una legge sull’eutanasia.
In tutto questo, ovviamente, i selezionatori dei film prima e le giurie poi fanno il loro lavoro per mettere all’attenzione del pubblico certi film piuttosto che altri e certi temi piuttosto che altri. Non ha alcun senso diverso, a nostro parere – per fare solo un altro esempio –, il premio speciale della giuria di Venezia assegnato quest’anno ad “April” della georgiana Dea Kulumbegashvili, film che ha per protagonista una “coraggiosa” ginecologa che pratica aborti clandestini (mentre si offre a sconosciuti per incontri sessuali occasionali che allevino la sua solitudine): un film di una lentezza esasperante, che non ha niente di veramente interessante dal punto di vista artistico, se non –appunto – un messaggio politico. E che non troverà un pubblico se non in una nicchia ristrettissima di super-appassionati di cinema d’autore.
La programmazione di un festival è sempre una selezione dalle centinaia di film che vengono proposti, e i film premiati a loro volta sono una selezione della selezione. Così si può dare la ribalta a quello che si intende promuovere, anche – e a volte soprattutto – dal punto di vista politico e culturale e non da quello artistico. È sempre stato così: quello che “dice” un romanzo o un film è molto importante per la reazione che abbiamo di fronte a esso. Lo argomentava ampiamente già anni fa un critico e teorico equilibrato e intelligente come Wayne Booth. L’arte per l’arte è sempre stata un’illusione ottica, una favoletta che qualcuno racconta anche a sé stesso e a cui qualche ingenuo sembra ancora credere...
Direttore del Master in International Screenwriting and production all’Università Cattolica di Milano
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