Vita

Procreazione artificiale. «La provetta? Mi ha annientata come una droga»

Elena Molinari giovedì 27 febbraio 2014
La fotografa Annie Leibovitz ritratta incinta di sette mesi, a 52 anni. L’attrice Geena Davis che diventa mamma a 48 e la supermodella Christy Brinkley a 44: immagini che hanno convinto molte americane che l’orologio biologico femminile sia un retaggio del passato, superato da prodigi scientifici che promettono un bebé sano anche dopo i 40. Miriam Zoll non aveva dubbi. Anche se a 35 anni ha sposato un uomo che desiderava dei figli, ha continuato ad aspettare. Ma a 41, quando un bambino non arrivava, «mi sono buttata nella riproduzione assistita, convinta che la tecnologia avrebbe curato la mia infertilità». Solo cinque anni più tardi Miriam ha scoperto che la sua non era nemmeno infertilità e che un rimedio miracoloso non esisteva. Zoll, una giornalista e consulente dell’Onu, ha scritto il libro Cracked open: Liberty, Fertility and the Pursuit of High Tech Babies (Spezzata in due: libertà, fertilità e la ricerca di bambini altamente tecnologici), metà testimonianza metà inchiesta su un’industria che «vende l’illusione che il concepimento, la gravidanza e il suo "risultato" siano processi controllabili a suon di dollari».Che cosa avete trovato nella prima clinica della fertilità cui vi siete rivolti?Medici che alimentavano il nostro ottimismo, trascurando di menzionare che il tasso di fallimento della fertilizzazione in vitro è attorno al 75%. Allo stesso tempo mi trattavano come una paziente da curare, anche se il mio corpo non aveva nulla di strano, solo un declino naturale della fertilità. L’hanno definita sterile?Sì. L’industria del concepimento ha ridefinito la fertilità. Per l’Organizzazione mondiale della sanità è sterile una coppia che non concepisce naturalmente dopo due anni. Ma le cliniche della fertilità consigliano alle coppie, anche giovani, di farsi esaminare dopo sei mesi. Infatti negli Stati Uniti l’età delle donne che scelgono di concepire in provetta è relativamente bassa, 36 anni.Le cliniche fanno leva sulla mentalità moderna americana che chiede alla medicina di fornire una soluzione veloce a qualsiasi incertezza e di eliminare ogni rischio. Ma nessuno spiega che la stessa riproduzione assistita è un processo incerto e rischioso. Io non sapevo che stavo esponendo la mia salute a dei pericoli. Avevo letto che la stimolazione dell’ovulazione poteva aumentare il rischio di cancro al seno e dell’endometrio, ma per ogni studio su potenziali rischi, le cliniche me ne fornivano uno che li sottovaluta. Anche solo i rischi per i neonati sarebbero però sufficienti a farci fare un passo indietro.Cos’altro ha notato durante il suo viaggio nel mondo della fertilità a pagamento?C’è una componente eugenetica in questo processo. Le cliniche propongono aggressivamente la possibilità di selezionare il sesso, o il colore degli occhi o dei capelli dei bambini. Come società dobbiamo pensarci. Dobbiamo anche riflettere sulla necessità di informare meglio le donne sul bisogno di non aspettare troppo per avere dei bambini. È un’idea non politicamente corretta, ma è la realtà. La fertilizzazione in vitro deve essere usata come ultima risorsa. Ci racconta la sua esperienza?In cinque anni, ho fatto quattro cicli di fertilizzazione in vitro con i miei ovuli e due con ovuli donati. È stato doloroso e traumatico. E inutile. Ho anche scoperto a posteriori che le donatrici da cui avevo ricevuto gli ovuli erano probabilmente diventate sterili come conseguenza dell’eccessiva stimolazione ormonale.Nel libro lei scrive che i tentativi di concepire in laboratorio l’hanno allontanata dai suoi valori. Che cosa intende?Mi considero una persona che rispetta la natura e il buon senso. Questa prospettiva, che mi ha sempre ancorato nella vita, è stata annebbiata quando sono entrata nel mondo delle iniezioni quotidiane e dei continui controlli medici. E l’ho persa del tutto quando io e mio marito siamo scivolati nella compravendita dei gameti. Non lo avevamo previsto, ma è il passo successivo scontato se cominci la fecondazione in vitro e non funziona. La clinica ce l’ha offerto senza sollevare nessun risvolto emotivo o etico. Ci hanno anche sconsigliato di parlarne con amici e parenti, perché «non avrebbero capito». In questo modo ci siamo trovati ancora più isolati. Sganciati dai nostri valori.È andata avanti ugualmente?Ero come drogata. Ogni fallimento mi portava a fare un altro tentativo. Avevo perso il senso della misura. Non mi accorgevo che stavo usando il corpo di un’altra donna per il mio beneficio personale. Un giorno, durante una profonda depressione in cui mi alzavo a malapena dal letto, mio marito mi ha scoperta al computer a fare una ricerca sulla gravidanza surrogata. E mi ha detto: sei impazzita, io mi fermo qui. Si è fermata?Non subito. Qualche giorno dopo, il mio medico ha chiamato dicendo che l’ultimo ciclo era fallito. Mentre assorbivo la notizia, ha aggiunto: spero che questo non la scoraggi dal provare ancora. Quella mancanza di rispetto per il prezzo emotivo che avevo pagato mi ha aperto gli occhi. Aveva ragione mio marito. Da quel giorno sono tornata ad essere una giornalista. Ho cominciato ad analizzare, a parlare e a fare domande. E ha rinunciato al sogno di un bambino? Abbiamo fatto domanda di adozione. Un paio d’anni dopo, siamo diventati genitori.