Il libro. «La malattia? Una medicina». Dieci storie di inguaribile voglia di vivere
Max Tresoldi con mamma Lucrezia, una delle 10 storie del libro
Pubblichiamo la postfazione al libro «Innamorati della vita. 10 storie di inguaribile voglia di vivere» (Ares, 134 pagine, 14 euro) curato da Massimo Pandolfi, che viene presentato oggi alla Camera dei Deputati.
Nella quotidianità assistiamo sempre più a dichiarazioni, relative al concetto di salute, a dignità e malattie inguaribili, a disabilità e condizioni non degne di essere vissute. La realtà deve e può nascere solo dal desiderio e dal bisogno della conoscenza reale e concreta di ciò che ci circonda. In caso contrario, ci troveremo davanti a parole, opinioni, ideologie.
Ed è ciò che ci ha portati dieci anni fa a far nascere il «Club L’inguaribile voglia di vivere»: conoscere, sensibilizzare, abbattere barriere culturali, aiutare.
Quando si è colpiti da una malattia, qualunque essa sia, ma soprattutto se grave e invalidante, a prima vista pare impossibile, se non insensato, coniugarla con il concetto di salute. A volte, però, può succedere che una malattia che mortifica e limita il corpo, anche in maniera molto evidente possa rappresentare una vera e propria medicina per chi deve forzatamente convivere con essa senza la possibilità di alternative. E mi riferisco in questo senso sia al malato che ai familiari che ai curanti.
Perché la malattia può davvero disegnare, nel bene e nel male, una linea incancellabile nel percorso di vita di una persona. O, ancora meglio, edificare una serie di Colonne d’Ercole superate le quali ci è impossibile tornare indietro, ma se lo si vuole, ci è ancora consentito di guardare avanti. Ed è proprio questo il nocciolo della questione.
Quando si ha la fortuna di conservare intatte e inalterate le proprie capacità cognitive, è comunque possibile pensare a ciò che si può fare piuttosto che a quello a cui non si è più in grado di ottemperare. Se si ragiona in questi termini, la malattia può davvero diventare una forma di salute. È salutare perché permette di sentirsi ancora utili per sé stessi e per gli altri, incominciando dai propri familiari per proseguire con gli amici e chi ci circonda.
Ed è salutare perché aiuta a rendersi conto che nella vita non bisogna dare nulla per scontato, neppure bere un bicchiere d’acqua senza soffocare. A volte siamo così concentrati su noi stessi che non ci accorgiamo della bellezza delle persone e della cose che abbiamo intorno da anni, magari da sempre.
Così, quando è la malattia, l’evento traumatico, l’imprevisto a fermarti bruscamente, può accadere che la propria scala di valori cambi. E che ci si renda conto che quelli che noi, fino a quel momento, consideravamo i più importanti invece non erano proprio così meritevoli dei primi posti.
Il dolore e la sofferenza (fisica, psicologica), in quanto tali, non sono né buoni né desiderabili, ma non per questo sono senza significato: ed è qui che l’impegno della medicina e della scienza deve concretamente intervenire per eliminare o alleviare il dolore delle persone malate o con disabilità, e per migliorare la loro qualità di vita, evitando ogni forma di accanimento terapeutico, con il concreto supporto delle istituzioni alla famiglia.
L’essere umano che soffre può e riesce a trasmettere e a insegnare molto a chi lo circonda. Non si possono o si devono creare le condizioni per l’abbandono di tanti malati e delle loro famiglie. È inaccettabile avallare l’idea che alcune condizioni di salute e di fragilità rendano indegna la vita e trasformino il malato o la persona con disabilità in un peso sociale. Si tratta di un’offesa per tutti, ma in particolar modo per chi vive una condizione di malattia e/o di disabilità.
Questa idea, infatti, aumenta la solitudine dei malati e delle loro famiglie, introduce nelle persone più fragili il dubbio di poter essere vittime di un programmato disinteresse da parte della società, e favorisce decisioni rinunciatarie. Non più barriere culturali, non conoscenza, ma la consapevolezza che insieme alle istituzioni, si rinsaldi nel nostro Paese la certezza che ognuno riceverà trattamenti, cure e sostegni adeguati.
Si deve garantire al malato, alla persona con disabilità e alla sua famiglia ogni possibile, proporzionata e adeguata forma di trattamento, cura, assistenza e sostegno. Ecco perché un corpo malato può portare salute all’anima, rendendola più forte, più tenace, più determinata, più disponibile a buttarsi con tutta sé stessa in quello che si vuole.
L’urgenza dettata da uno stato patologico può diventare uno stimolo enorme per raggiungere traguardi considerati impensabili e apparentemente preclusi nella «vita precedente ».
La malattia, la condizione di disabilità non porta via le emozioni, i sentimenti, la possibilità di comprendere che l’essere conta di più del fare. Può sembrare paradossale, ma un corpo nudo, spogliato della sua esuberanza, mortificato nella sua esteriorità, fa brillare maggiormente l’anima, ovvero il luogo in cui sono presenti le chiavi che possono aprire, in qualunque momento, la via per completare nel modo migliore il proprio percorso di vita.
La circostanza, qualunque essa sia, non è obiezione alla tua felicità e alla speranza, ma ne è il tramite; chiunque anche in una situazione di difficoltà, di malattia o di disabilità può avere speranza ed essere felice.
La speranza poggia sull’incontro con un altro che spera, in cui uno intravede la possibilità per sé, di vivere ed essere felici e con speranza, già vissuta e in atto. (...) La speranza è uno strumento di vita, uno strumento per acquisire dignità, la speranza è bidirezionale, la dai e la ricevi, puoi trasmetterla e riceverla da chi ti circonda.
Così anche, per esempio, nel rapporto tra una persona malata e chi lo cura la dignità e la speranza stanno nell’occhio del curante, del familiare, del caregiver, quello sguardo che liberamente si pone sull’altro può dare dignità e speranza. Allo stesso modo lo sguardo di un malato pieno di speranza che guarda chi lo cura riempie di dignità l’altro e l’azione che sta compiendo. Si tratta di un fare memoria reciproca, il fatto che l’altro c’è è fonte di speranza ed è un fatto presente, che deve succedere ogni giorno soprattutto nella difficoltà; la speranza è ciò che ti fa guardare al futuro poggiando sul presente e su quello che c’è di positivo.
È una questione di persone, esseri umani, che portano nel loro profondo una necessità di amare ed essere amati (Benedetto XVI).
È un cambiamento culturale a cui noi tutti dovremmo essere chiamati perché non venga alimentata l’ideologia e la cosiddetta cultura del benpensante.
La Vita è una questione di sguardi e di speranza, un battito di ciglia, lieve e talvolta impercettibile come quello delle ali di una farfalla, può davvero divenire testimonianza della pienezza dell’essere, del sentire e allo stesso tempo essere un ponte che permette a pieno titolo di sentirsi vivi, parte di qualcosa più grande, con una meravigliosa e inguaribile voglia di vivere.
Mario Melazzini è medico, malato di Sla, presidente onorario del Club L’inguaribile voglia di vivere