Vita

TESTIMONIANZE. Le famiglie con disabili gravi si raccontano

giovedì 9 dicembre 2010
«La malattia che ha colpito la nostra Benedetta? Per noi si tratta di un progetto d’amore» «Non avevamo mai neanche lontanamente pensato che avremmo avuto a che fare così direttamente con la diversità, con la fragilità, l’impotenza, l’imponderabilità, con una situazione così precaria». Sbattuti dentro una vicenda inaspettata e forse più grande di loro, Carla e Sante Campion, coniugi di Mediglia, hinterland milanese, sono passati dallo scoramento e dalla ribellione per la condizione di grave disabilità della loro terza figlia, Benedetta, oggi 30enne, all’accoglienza di una situazione faticosa. Un lavoro quotidiano che è diventato anche un piccolo libro, "Benedetta, una dolce avventura", che, oltre a raccontare la storia di Benedetta e della sua famiglia, è anche una sorta di manuale per genitori di figli disabili. «Per noi – raccontano Carla e Sante – è stato un passaggio graduale che ha significato fare nostro, rendere parte del nostro mondo, un disegno misterioso che ci trascendeva».Terza di quattro fratelli (l’anno dopo sarebbe nata Veronica, «sana e bellissima», scrivono i genitori), Benedetta viene alla luce dopo una gravidanza complicata. Nonostante fosse «così piccola e precaria», tanto da dover restare in ospedale per i primi due mesi di vita, i medici tendono a rassicurare i genitori, che però sono costretti a seguire, quasi impotenti, le frequenti crisi e i continui ricoveri della bambina. Solo quando Benedetta ha 9 anni, le viene diagnosticata la sindrome di Wolf-Hirschhorn (Whs), una patologia genetica dovuta alla gravidanza sofferta, che comporta un importante ritardo della crescita, del linguaggio, con anomalie degli organi interni.Per i genitori è stato difficile adeguarsi a questa situazione e la voglia di ribellarsi alla realtà era sempre in agguato. «Poi – sottolineano Carla e Sante – siamo passati pian piano all’accettazione di un progetto che non capivamo, che non conoscevamo ma che sapevamo essere comunque un progetto d’amore per noi, per lei e per la nostra famiglia». In questo sono stati aiutati dai tanti amici del Rinnovamento carismatico cattolico e dai genitori dell’Associazione italiana sulla Sindrome di Wolf-Hirschhorn (Aisiwh), che hanno contribuito a fondare. «All’inizio – concludono i due coniugi milanesi – vivevamo con forte disagio il modo come gli altri guardavano Betta. Oggi abbiamo superato questa difficoltà e siamo convinti che, agli occhi di Dio, lei è bellissima, irripetibile e preziosa. Gli diciamo grazie per aver qui, nella nostra casa, Benedetta con tutto quello che ci dà, il suo sorriso, la sua tenerezza, il suo sguardo che ti cerca perché vuole incontrarti. Quel progetto prima così insondabile adesso ci sembra davvero un progetto d’amore».Paolo Ferrario

«Se la scienza medica consente di vivere,allora dateci il diritto di farlo dignitosamente»In una foto scattata a Natale dell’anno scorso, si vede Juan Hernandez sulla sedia a rotelle, assieme a sua moglie, Luisa Susanna: finalmente la famiglia va ad abitare nella stessa casa, con i due figli Raul e Caterina. Juan sorride. Luisa appare commossa. Una foto di vita familiare, come tante, se non fosse che Juan Hernandez è in stato vegetativo e quel sorriso improvviso le persone che in quel momento lo circondavano proprio non se lo sarebbero aspettato. «È stato il nostro miracolo di Natale», ricorda Luisa, 42 anni. Lei della tanto discussa trasmissione di Fazio e Saviano non ne sa proprio nulla. «Non faccio mai riferimento all’esperienza altrui – premette – perché penso che ogni esperienza sia soggettiva e personale e vada rispettata. Però come gli altri sono messi in condizione di fare le proprie scelte, anche noi dobbiamo essere messi in condizione di fare le nostre: se i mezzi della medicina ci hanno permesso di vivere, abbiamo anche diritto a vivere dignitosamente. Ed è questo che a volte non avviene».Juan, per anni campione della nazionale di pallanuoto cubana, e poi giocatore nella Lazio, da 6 anni si trova in stato vegetativo dopo un banale intervento alla caviglia. «Per accelerare i tempi della guarigione ha fatto un intervento chirurgico d’accordo con la squadra». Ma si è rivelato tragico: «Ha avuto un problema anestesiologico e non si sono accorti che era andato in arresto cardiaco». E così Juan entra in coma. Allora aveva 36 anni. Luisa, stessa età, da sei mesi mamma di Raul, si ritrova a gestire una situazione drammatica. «Nonostante le difficoltà anche a livello giuridico, abbiamo avuto un risarcimento che quantomeno ci consente di assistere mio marito – racconta – e ci permette di vivere tutti insieme in una casa con condizioni adatte a mio marito, ai miei bambini e a me».Ma non vuole parlare solo della sua storia Luisa: «Famiglia e amici mi hanno aiutato e sostenuto. Con l’associazione Risveglio. Ma non è per tutti questo trattamento. Per quanto riguarda la parte statale, salvo la Asl che con mille peripezie ti concede gli aiuti, non c’è molto». Ecco che allora «bisogna "farsi leone", perché ci vogliono anche standard culturali e di personalità per sostenere una situazione del genere». Ma a una donna così giovane da dove viene tanta forza? «Principalmente dall’amore – risponde –. È ciò che ha mosso i miei passi nella scelta di sposare mio marito, di andare avanti nonostante la tragedia e di sperare oltre la speranza e poi in chi può e sa più di noi, che è luce, Dio. Da quando ho conosciuto mio marito, ho accolto il Signore e questa luce non mi sta abbandonando, nonostante le difficoltà. In questo senso penso che la mia sia una famiglia fortunata».Graziella Melina «Vostra figlia? Piuttosto è meglio che muoia» Ma io e mio marito ci siamo dedicati a CarmenOspedale della Lombardia. Carmen viene accompagnata a fare un’ecografia per sospetti calcoli. «È meglio portarla ai giardini!», dice il medico di turno alla mamma. E lei, senza battere ciglio: «Non si preoccupi, dottore. Ai giardini la porto e la porterò. Ma adesso ha bisogno di questo esame. Lei ha figli? - e, senza aspettare la risposta -. Ad ogni modo, se li ha, ringrazi Dio se sono sani». Le famiglie con figli gravemente disabili sono avvezze alle incomprensioni. Carlo e Camilla Ciocca, che di ospedali e studi medici ne hanno frequentati parecchi nei 25 anni di vita di Carmen, non si lasciano scoraggiare. Neanche di fronte a chi dice, senza tanti giri di parole: «Vostra figlia, per stare così come sta, è meglio che muoia...».Carmen è affetta da tetraparesi spastica. È cerebrolesa da quando aveva due mesi. Vive ormai perennemente a letto, accudita dalla mamma con l’aiuto di una badante a cui qualcuno - i Ciocca vivono a Trezzo sull’Adda (Milano) - ancora chiede: «Ma non hai paura a starle vicino?». Alla nascita, il 25 settembre 1985, è una bambina perfettamente sana, di 3 chili e 800 grammi di peso e 53 centimetri di lunghezza. Cresce regolarmente. Finché un pomeriggio, siamo a dicembre, ha d’improvviso vomito a getto, si irrigidisce, la testa s’ingrossa. Dalle risultanze della Tac si scopre che ha un tumore al cervello, grande come un mandarino. Serve operarla con estrema urgenza. L’intervento chirurgico riesce bene, tanto che in breve tempo Carmen riprende ad alimentarsi. A Natale, però, un secondo crollo. Inspiegabile. Da allora, l’encefalogramma risulta piatto. Il suo quadro clinico nemmeno i medici lo hanno mai saputo giustificare. Anziché lasciarsi schiacciare dalle domande, Carlo e Camilla hanno preferito rimboccarsi le maniche, forti delle parole di un amico di famiglia, il cardinale Anastasio Ballestrero, che fu arcivescovo a Bari e a Torino: «Sperare sempre, disperare mai».Da 25 anni sono accanto alla loro «principessa» senza chiedere niente a nessuno. Carlo è un ex dipendente dell’Enel. Camilla gestiva il bar sotto casa, che ha lasciato per accudire la figlia a tempo pieno. La fatica è tanta, la salute di Carmen fragile. Eppure non manca il sorriso in casa Ciocca. «A chi mi domanda: perché vi è capitato? Io rispondo: Dio si serve anche di queste persone, non lo possiamo sapere. Ma ti dà anche la grazia di portare avanti queste situazioni. Io sono riconoscente a Dio che mi ha dato tanta salute; e se questa salute c’è, la devo investire – dice con disarmante semplicità Camilla –. C’è chi si dedica a una causa, chi all’altra. Io la dedico a Carmen».Barbara Sartori «Da padre dico che i suoi diritti sono ignoratie sacrificati sull’altare di una politica assente»«Dopo aver condiviso quasi trent’anni anni di sacrifici e sofferenze con mia figlia Cristina, che clinicamente è definita in stato vegetativo, e dopo avere conosciuto tante famiglie con una situazione simile alla nostra, devo prendere atto che fino ad oggi i suoi diritti sono stati ignorati e sacrificati sull’altare di una politica i cui argomenti sono lontani dalle nostre reali esigenze. L’unica grande forza di conforto è stato l’amore e il clima d’amicizia creato dai volontari, gente semplice, quasi tutte persone di fede. Mentre quelli che si dicono per la vita, e occupano ruoli pubblici, ad oggi sono stati assenti e distratti». Questo rileva Romano Magrini, papà di Cristina, una donna bolognese di 44 anni che vive dal 18 novembre 1981 in una condizione di non autosufficienza molto grave, dopo essere stata investita, appena quindicenne, sulle strisce pedonali.Da allora Cristina ha bisogno di assistenza costante: viene lavata, imboccata, portata in passeggiata per godere del calore del sole. Tra le battaglie sostenute dai Magrini per Cristina, che gode del triste primato di essere la persona da più tempo in stato vegetativo, spiccano il riconoscimento dell’assegno di cecità e l’assistenza nei giorni festivi, pur se di poche ore. Dal 1992 Cristina ha perso la mamma e vive sola nella casa di Sarzana con il papà, settantasettenne, preoccupato per come sarà la vita di sua figlia quando anche lui non ci sarà più. «La comunità, tutti noi, siamo chiamati a prenderci carico della sua sofferenza e accompagnarla…», promette il ministro Sacconi nella prefazione al libro, Se mi risvegliassi domani?, che racconta e documenta la vita della famiglia Magrini. «Me lo auguro ma vorrei fatti concreti», commenta Romano, senza sarcasmo, con una speranza che lo ha sempre sostenuto nell’accudire sua figlia come un neonato nella culla. E continua a farlo, pur sentendo il peso della fatica di questi oltre 10.500 giorni. Cristina e Romano sono l’emblema delle tante famiglie che stanno soffrendo per lo stesso motivo, mentre attendono da troppo tempo una risoluzione concreta al loro grande, anzi, immenso problema umano, non affrontabile esclusivamente in chiave socio-sanitaria. Non si arrende Romano e con grande altruismo chiede alle varie istituzioni, non solo per la sua Cristina, ma per tutte queste famiglie: «Che sarà dopo di noi? Quelli per la vita – continua Romano – saranno davvero in grado di offrire una risposta, che possa sostenerci senza per forza ricadere nel controaltare di altre scelte che portano a sconfiggere il coraggio di vivere e far vivere?» (www.cristinamagrini.it).Francesca Golfarelli