Idee. Con i bambini, torniamo a “dare vita alla vita”
Alcuni bambini salutano il Papa durante la celebrazione della Giornata mondiale domenica in piazza San Pietro
La commozione, la tenerezza. Ti riempie gli occhi se incroci gli occhi di un bambino che ti sorride. L’incantamento d’una bellezza che è fiore di vita, pura innocenza, e ti mette in cuore senza saperlo una segreta nostalgia d’infanzia, che per l’adulto è spesso una sorta di paradiso perduto.
La gioia, sì, ma anche il dolore, quando vedi negli occhi il dolore, perché il dolore del bambino è un dolore innocente, è l’insopportabile mistero dell’innocenza ferita. I bambini di Terezin, i bambini di Gaza; i bambini dell’intero mondo straziati dalle maledette crudeltà degli adulti, comprese quelle che riteniamo “ordinarie” come la fame, lo stento, l’abbandono. Il rifiuto insomma, la negazione della vita, persino a partire dal grembo.
E dire che pensiamo di guidare i bambini che vengono al mondo portandoli all’età adulta, facendoli “diventare grandi”, come si dice, come se fosse quella lì la vita da raggiungere, a nostra immagine, a prezzo di ciò che frattanto si fa diventare crisalide morta. Lo intuì Bernanos quando scrisse pagine memorabili sullo «spirito d’infanzia», confidando che «la mia vita è già piena di morti, ma il più morto di tutti i morti è il bambino ch’io fui». E disegnando l’inversa convergenza degli anni adulti e senili a esser guidati da quel bambino, da quello spirito, alla Vita vera, alla casa del Padre.
Del resto, come dimenticare il Vangelo, lo stupore notturno di Nicodemo come di fronte a una metamorfosi incomprensibile chiesta dal Regno, e la solare gioiosa rivelazione del Maestro che il Regno appartiene ai bambini?
Questi pensieri mi sono venuti leggendo le parole di papa Francesco nel messaggio per la Giornata mondiale dei Bambini, poi nel saluto di sabato allo Stadio Olimpico di Roma, e ancora prima nell’incontro avvenuto nella parrocchia di Santa Bernadette, nella periferia romana, con i giovani. C’è in tutti una specie di preludio che parla di gioia, di gioia come “salute dell’anima”. E poi il tema di fondo irrompe con l’urgenza creativa di far nuovo il mondo, secondo un’apocalisse d’amore. Un sogno, un’infantile utopia, o una speranza rigenerata, una promessa? Non si chiudono gli occhi sul male esistente, sui suoi tragici epifenomeni di guerra e di vita straziata, ma vi si innesta il sogno di un mondo di pace, un mondo di fratelli, un mondo che ha il futuro di questa raggiungibile vita nuova.
La ricchezza spirituale di questi giorni ha fonte anche nelle parole stesse dei bambini, nelle domande che hanno fatto loro a papa Francesco. Parole che alla dotta ignoranza adulta paiono ingenue, e che sono invece i grandi quesiti essenziali che tagliano la storia: se si possa vivere in pace, se ciascun piccolo uomo possa fare qualche piccosa cosa per la pace, se sia davvero possibile volersi bene, se possa cessare lo scandalo della povertà e dello scarto umano, e quale sia il miracolo da chiedere per desiderio (la felicità), e come si genera concretamente il futuro. E c’è persino la più ingenua e terribile domanda su tutte: «Come si fa ad aprire il cuore dei grandi». Terribile, perché dall’infanzia viene l’esperienza confessata sul cuore di pietra del mondo, al quale si bussa invano. E ci trafigge l’altrettanto terribile risposta, che consiste nel continuare a bussare, a fare domande. Agli uomini, alla società; e anche a Dio nella preghiera.
La sintesi è in una parola ultima che si aggrappa alla speranza di un mondo salvato dai bambini. Ci fosse data un’aurora di rinascita e d’innocenza dopo la sconcia notte della nostra tradita adultità. Forse a vincere le disperate distopie in cui affoga la delusione del mondo, i bambini ci insegneranno con l’infantile speranza il miracolo del giorno nuovo. Dare vita alla vita, dunque, questo ci resta, per attingere un poco anche noi alla risorsa inesausta dello spirito d’infanzia. Ha scritto il poeta Tagore che «ogni volta che nasce un bambino vuol dire che Dio non si è ancora stancato degli uomini».