Vita

LA DIFESA DELLA VITA. Belletti: «La famiglia che cura? Per i media non esiste»

Viviana Daloiso domenica 28 novembre 2010
La malattia, la sofferenza, non sono mai fatti individuali. Colpiscono fisicamente una sola persona, ma quella persona è anche un padre, oppure una moglie, o una sorella, un figlio, un nipote: sta in relazione con altri. In una parola, è parte di una famiglia. Ecco perché oltre il volto dei malati, oltre le loro disabilità o menomazioni fisiche, c’è semprequalcun altro. Che si fa carico di questa sofferenza, che la sostiene, che fa sacrifici e combatte per alleviarla. «Si pensa che queste situazioni siano rare, in Italia – spiega Francesco Belletti, presidente del Forum delle associazioni familiari –, le si considera come "casi limite". E invece si sbaglia. La dimensione della sofferenza e quella della cura sono proprie di ogni famiglia, sono la normalità. Per questo il non dare loro voce, il far finta che non esistano, ferisce così tanto».Questo è un punto interessante: le famiglie con carichi assistenziali sono la normalità.È proprio così. Dai più banali infortuni sportivi, alle influenze fino alla presa in carico di un genitore anziano e poi, nei casi più gravi, dei disabili, la famiglia è il luogo della cura. Prendersi cura dell’altro, sostenerlo nel bisogno, affiancarlo nella sfida alla sofferenza – piccola o grande che sia – è la sostanza stessa del fare famiglia. E prima o poi la sperimentiamo tutti.Fa specie che questa fotografia della realtà sia così distorta a livello mediatico...Sempre più spesso assistiamo alla tendenza dei mezzi di comunicazione a nascondere la sofferenza o addirittura a proporre come alternativa alla cura la “liberazione” dalla malattia. Questo atteggiamento, purtroppo, contribuisce ad aggravare la dimensione dell’isolamento in cui si trovano le famiglie: sole nell’affrontare problemi e compiti, si sentono ancora più sole di fronte all’indifferenza dei media. Che soffrono dell’incapacità totale di racconto se al di fuori di una dimensione emergenziale o drammatica.L’associazionismo e il fare rete sul territorio, però, aiuta?È fondamentale, ed è la risorsa che le famiglie hanno immediatamente trovato, nel caso di quelle con disabili o malati a carico già negli anni Cinquanta. Non chiudersi, fare tesoro dell’esperienza dell’altro, poter parlare senza vergogna: questo è un aiuto concreto.Nella vicenda Fazio-Saviano cosa ha infastidito maggiormente le famiglie?La totale indifferenza, anzi quasi lo spregio, nei confronti della fatica quotidiana. Il fatto che questa fatica non sia stata e non voglia essere riconosciuta. Queste famiglie sanno bene che la cura dei propri familiari, fragili e inermi, mentre custodisce la dignità delle vite più fragili esprime come dignitosa proprio la vita di chi cura. E vogliono poterlo raccontare.Qualcuno ha persino avanzato l’ipotesi che queste famiglie siano quelle "forti": hanno tutti i privilegi e nessuna legge impedisce loro di tenere in vita e assistere i loro cari. Altri, invece, hanno detto che sarebbero solo alla ricerca di «soldi pubblici per associazioni private».Rimanderei al mittente entrambe le ipotesi, del tutto prive di fondamento. Non hanno alcun potere e non lo rivendicano, queste famiglie. Non chiedono nulla e non devono dimostrare nulla. Vogliono potersi raccontare, però. Eppure su di loro viene esercitata la violenza della non parola: solo questo dovrebbe dire di quanto “potere” godono.Come si sta muovendo il Forum rispetto alla vicenda?Abbiamo immediatamente aderito all’appello di Avvenire. Ieri, poi, al termine dell’assemblea abbiamo approvato un documento in cui ribadiamo con forza la richiesta che le famiglie dei disabili gravi abbiano diritto di replica e che le posizioni sul tema del fine vita siano ribilanciate. Il servizio pubblico lo deve all’intera società civile.