Malattia e disabilità. La cura che esiste: un'altra lezione che ci ha dato Sammy Basso
La bara di Sammy Basso ai suoi funerali
L’immagine, i like, l’ossessione di essere perfetti, l’incapacità di accettarsi diversi dagli stereotipi imperanti, l’orizzonte di senso appiattito sull’apparire, sul “funzionare”. È cresciuto in un mondo fatto così, Sammy Basso, fra quella Generazione Z sul cui disagio ci arrovelliamo a ogni piè sospinto, interrogandoci sulle ragioni di un malessere che sempre più spesso siamo del tutto incapaci di leggere, oltre che di comprendere. E che Sammy non scalfiva minimamente, lui che pure avrebbe avuto tutte le ragioni per avercela col destino e per seppellirsi in un sarcofago di rabbia e recriminazioni. No, Sammy col male che l’aveva plasmato come un alieno agli occhi degli altri, l’eterno bambino ricoperto di rughe, minuscolo, col cuore e le gambe fragili come cristalli e un contratto a tempo determinato con la vita, era felice. L’ha testimoniato ovunque lo invitassero, l’ha scritto nero su bianco nella lettera che ha messo da parte qualche anno fa e che ci ha consegnato il giorno del suo funerale.
Il primo istinto è quello di non crederci fino in fondo: «Non può essere davvero così» ripete la voce dentro di noi, assuefatta anche lei all’illusione che la vita, appunto, sia tale, e degna d’essere vissuta, solo se “sana”, perfetta, all’altezza delle aspettative generali. Non a caso una certa forma di umanità in voga è quella di comprendere perché malati terminali e disabili gravissimi si mettano davanti a obiettivi fotografici, telecamere o microfoni per raccontare delle loro sofferenze e giustificare il loro desiderio di morire (o reclamare persino il diritto di poterlo fare in base a una legge): «Non si può vivere così». E invece si può benissimo. E invece il diritto a vivere così lo si può reclamare e gridare al mondo.
Sammy l’ha fatto per 28 anni: chiedeva ai suoi genitori di mandarlo in gita, da piccolo, di lasciarlo fuori fino a tardi la sera coi suoi amici a giocare e parlare del futuro; voleva che lo portassero dappertutto, alle feste, in giro per l’Italia e per il mondo, su quella Route 66 che aveva sognato col suo amico Riccardo e che ha calpestato col sorriso in un viaggio indimenticabile; desiderava, sopra tutto, di trovare una risposta e una cura per la sua malattia, la progeria, aveva studiato e s’era laureato per ottenerla, s’era messo in contatto con tutti gli altri malati come lui, aveva fondato un’associazione per promuovere la ricerca e il sostegno alle famiglie. Di più, Sammy con quel desiderio di vita ha contagiato chi gli stava accanto: mamma Laura e papà Amerigo, che l’hanno aiutato a realizzare il suo sogno e supportato nella sua attività; i suoi compagni di classe e di catechismo, che ispirandosi a lui hanno deciso di studiare in alcuni casi anche loro biologia, oppure di dedicarsi alla ricerca, alla comunicazione, al volontariato; la comunità di Tezze sul Brenta, il paesino dov’è cresciuto, che s’è allargata nutrendosi della sua testimonianza straordinaria e riuscendo nel miracolo di contare su tanti ragazzi impegnati in oratorio e nelle attività della pastorale giovanile.
Chi gli stava accanto, strada facendo, ha così ricambiato il suo coraggio, circondandolo dell’amore che alla fine s’è trasformato nella cura che cercava: Sammy ha inspiegabilmente vissuto più d’ogni altro malato di progeria nella storia della malattia, ha superato interventi delicatissimi e momenti difficilissimi, ha perso e ritrovato – sempre più forte – la speranza d’andare avanti, ha superato ogni volta gli ostacoli che gli si paravano davanti solo per il fatto d’essere tanto amato. Ed eccolo il lieto fine della sua storia che andrebbe scritto per ogni malato: esiste, una cura. Prendersi a cuore la fragilità, farne una risorsa e non un limite, una leva e non un peso, condividere percorsi di vita, costruire relazioni in un mondo a misura di tutti. Una missione che simbolicamente il piccolo Sammy consegna anche ai grandi che nel primo G7 dedicato alla disabilità hanno deciso di guardare per la prima volta a quelli come lui.