La sentenza. Figli in provetta solo con mamma e papà
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Il divieto di accedere alla procreazione medicalmente assistita, imposto dalla legge 40 nei confronti delle coppie formate da persone dello stesso sesso, è del tutto legittimo. Lo ha stabilito la Corte costituzionale con la sentenza 221, depositata ieri, che ha sancito la non fondatezza della questione postagli sia dal Tribunale di Pordenone sia da quello di Bolzano. In entrambi i casi (riuniti dalla Consulta in un unico procedimento), protagoniste della vicenda giudiziaria sono due coppie di donne, civilmente unite, che avevano agito contro il diniego alla provetta loro imposto dalle rispettive Aziende sanitarie. Nel procedimento territoriale, le due magistrature avevano concluso che nessuna interpretazione della legge avrebbe potuto aprire alle ricorrenti le porte alla fecondazione eterologa, ma – ritenendo che la norma fosse in contrasto con la Costituzione – avevano sospeso il procedimento e posto il quesito alla Consulta.
Nella sua sentenza la Corte premette che la procreazione assistita «solleva delicate questioni di ordine etico e morale» e ricorda che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha riconosciuto sul tema «un ampio margine di apprezzamento» da parte dei singoli Stati: ogni Paese è libero di regolare la materia come meglio crede, senza il rischio di incorrere in sanzioni. È a questo punto che i giudici costituzionali scendono alle radici della legge 40, ricordando che si tratta della «prima legislazione organica relativa a un delicato settore» e che uno dei suoi obiettivi è valorizzare la «finalità ( latu sensu) terapeutica» della procreazione medicalmente assistita. Qui la Corte disinnesca un altro equivoco: quello sull’infertilità delle coppie gay. È «fisiologica», spiegano i giudici, non patologica, quindi non può essere considerata come una malattia che apre le porte alla fecondazione assistita.
D’altronde, chiarisce la Consulta, la provetta non può costituire «una modalità di realizzazione del "desiderio di genitorialità" alternativa ed equivalente al concepimento naturale, lasciata alla libera determinazione degli interessati». Se così fosse, argomentano i giudici, cadrebbero a catena anche tutte le altre preclusioni della legge. È vero: in passato, modificando questa norma, la Corte ha rimosso il divieto di fecondazione eterologa, e pure quello che teneva lontana la provetta dalle coppie portatrici di malattie genetiche, rendendo così possibile la selezione preimpianto degli embrioni da utilizzare per la gravidanza. Ma entrambe le pronunce, sottolinea la nuova sentenza, non solo hanno valorizzato il carattere terapeutico della fecondazione artificiale ma hanno confermato «nella sua globalità l’altra scelta legislativa di fondo: quella, cioè, di riprodurre il modello della famiglia caratterizzata dalla presenza di una figura materna e di una paterna».
Non a caso, anche la sentenza 162/2014 che ha sdoganato l’eterologa si è premurata di «puntualizzare e sottolineare – si legge sempre nella pronuncia di ieri – che alla fecondazione eterologa restano, comunque sia, abilitate ad accedere solo le coppie che posseggano i requisiti indicati dall’art. 5, comma 1, della legge», vale a dire quelle formate da persone di sesso diverso, maggiorenni, in età potenzialmente fertile. «Di certo – si legge sempre in sentenza – non può considerarsi irrazionale e ingiustificata, in termini generali, la preoccupazione legislativa di garantire, a fronte delle nuove tecniche procreative, il rispetto delle condizioni ritenute migliori per lo sviluppo della personalità del nuovo nato ». Conseguentemente, non può essere ritenuta «di per sé arbitraria e irrazionale» l’idea che «una famiglia ad instar naturae – due genitori, di sesso diverso, entrambi viventi e in età potenzialmente fertile – rappresenti, in linea di principio, il 'luogo' più idoneo» per crescere un figlio. Un principio che negli ultimi anni sembra essere stato messo in discussione da sentenze che hanno consentito l’adozione a coppie dello stesso sesso. Ma sul punto ricorda la Corte che «vi è una differenza essenziale» tra questo istituto e la fecondazione assistita. L’adozione, infatti, «presuppone l’esistenza in vita dell’adottando» e serve «non per dare un figlio a una coppia, ma precipuamente per dare una famiglia al minore che ne è privo». Al contrario, la provetta «serve a dare un figlio non ancora venuto a esistenza a una coppia», dunque non è «irragionevole che il legislatore si preoccupi» di garantire al piccolo «quelle che appaiono, in astratto, come le migliori condizioni 'di partenza'». Niente violazione dei diritti fondamentali garantiti dall’articolo 2 della Costituzione, dunque, ma neppure di quelli all’uguaglianza, alla salute, al rispetto della vita privata e familiare e a quello di non discriminazione, contenuti i primi tre direttamente in Costituzione, gli altri due nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo, cui la nostra Legge fondamentale rimanda. E lo stesso vale per altre norme internazionali di rango costituzionale, che il Tribunale di Bolzano aveva ritenuto violate. Una forte legittimazione del nostro diritto di famiglia, così com’è. E un chiaro stop a certe visioni 'creative', precariamente appoggiate a presunti nuovi diritti.