Vita

Gene editing. La corsa all’oro degli embrioni manipolati

Assuntina Morresi giovedì 24 settembre 2015
​Sarà David Baltimore, che ha condiviso il Nobel per la Medicina con Renato Dulbecco e Howard M. Temin, a presiedere il Comitato organizzatore dell’atteso summit "delle accademie" a Washington, dal 1° al 3 dicembre prossimi: il 14 settembre l’Accademia cinese delle Scienze e l’omologa britannica, la Royal Society, hanno annunciato che affiancheranno l’Accademia nazionale delle Scienze e quella della Medicina degli Usa nell’organizzazione dell’evento, proposto dagli americani a maggio. Il tema è all’ordine del giorno della comunità scientifica internazionale: le implicazioni scientifiche, mediche, etiche e di governance delle nuove tecniche di manipolazione genetica note come "gene editing". Oltre al summit sarà costituito anche un comitato differente allo scopo di pubblicare l’anno prossimo un report che tratti globalmente questa tecnica, una sorta di linea guida per un suo "uso responsabile".
Per gene editing si intende, in sintesi, un’operazione di ingegneria genetica che utilizza "forbici molecolari" per "tagliare" il Dna in punti ben precisi, eliminandone o sostituendone delle parti. Un "taglia e cuci" microscopico per trasformare in modo irreversibile il patrimonio genetico di esseri viventi consentendo – se la tecnica venisse applicata allo stadio embrionale o alle cellule riproduttive – di tramandarlo così modificato alla discendenza. In questo caso, soprattutto per gli esseri umani, con conseguenze imprevedibili: se da un lato si potrebbero sradicare patologie genetiche eliminando o riparando i geni difettosi, dall’altro sarebbe possibile modificare on demand, anche potenziandolo, il patrimonio genetico individuale, generando cioè esseri umani con caratteristiche predeterminate. Il condizionale è d’obbligo, perché allo stadio attuale delle conoscenze la tecnica non consente un "taglia e cuci" accurato; in aprile un articolo di ricercatori cinesi che hanno usato embrioni umani anomali (non si sarebbero sviluppati se trasferiti in utero) ha evidenziato i rischi del gene editing: le "forbici" non tagliano dove dovrebbero e spesso si inducono mutazioni genetiche impreviste. Riviste scientifiche come Nature e Science hanno ospitato appelli di scienziati con richieste di moratorie per questi esperimenti sullo stile di quanto accaduto con la conferenza di Asilomar sul Dna ricombinante. Innanzitutto adesso non ci sono le condizioni per un’applicazione sufficientemente sicura sugli esseri umani: un uso prematuro di questa tecnica potrebbe avere effetti devastanti, screditandola irrimediabilmente nonostante le sue enormi potenzialità e allontanando gli investimenti necessari per poterla sviluppare e perfezionare al meglio. Tornano poi, amplificate, tutte le problematiche già poste dalla distruzione degli embrioni per produrre linee staminali e che sembravano superate dalle nuove metodologie nelle quali si fa ricorso solo a quelle adulte (prime fra tutti, ma non uniche, le Ips del Nobel Yamanaka).
È del 18 settembre la richiesta all’autorità regolatoria inglese, l’Hfea, di un gruppo di ricercatori del Francis Crick Institute di Londra: vorrebbero usare il gene editing per studiare i geni attivi nei primi stadi di sviluppo embrionale, precedenti l’impianto in utero. Non si tratterebbe di applicazioni cliniche ma solo di studi di base, e gli embrioni non verrebbero mai portati a nascita: la precisazione dei ricercatori inglesi, però, non rassicura. Se il problema principale è perfezionare la tecnica, per consentire il "taglia e cuci" genetico con la massima accuratezza, verificando con rigore che l’operazione non induca mutazioni diverse da quelle cercate né conseguenze impreviste nel Dna, non si capisce per quale motivo tutto questo non possa essere fatto innanzitutto negli embrioni animali. Tutte le sperimentazioni, prima che negli umani, vengono effettuate sugli animali, comprese ad esempio quelle che hanno portato il premio Nobel allo studioso giapponese Shinya Yamanaka, che per ottenere le sue Ips ha usato sì embrioni, ma di topo. D’altra parte anche chi ammette la ricerca sugli embrioni umani fino a 14 giorni – come in Gran Bretagna – deve riconoscere che si tratta di uno stadio di sviluppo che non consente di escludere anomalie nell’eventuale nascituro, e tanto meno nella sua discendenza. Una volta avviata la modifica genetica sugli embrioni umani, perché fermarne lo studio solo dopo due settimane se lo scopo è aumentare la conoscenza scientifica di base?
Il secondo problema sta nella governance: limitare all’ambito terapeutico oppure consentire anche altre manipolazioni genetiche? E qual è il confine fra cura e potenziamento? Chi dovrebbe regolare il tutto, e come? Sono solo alcune delle mille domande che il gene editing pone. Nell’attesa del summit di dicembre, si moltiplicano le prese di posizione di istituzioni pubbliche e private: i Nih («National institutes of health», prima agenzia americana per la ricerca biomedica), hanno ribadito il divieto di utilizzare i propri fondi per questo tipo di ricerche, anche nel caso in cui si manipolassero embrioni anomali incapaci di svilupparsi. E l’amministrazione Obama, per bocca del direttore dell’ufficio della Casa Bianca che si occupa di politiche scientifiche e tecnologiche, ha emanato in maggio una nota problematica in proposito nella quale fra l’altro si sottolinea che «le piene implicazioni di un passo come questo non si possono conoscere fino a quando un certo numero di generazioni ha ereditato le mutazioni genetiche indotte, le scelte fatte in un Paese potrebbero coinvolgere tutti noi». Più possibiliste le dichiarazioni di cinque centri di ricerca e organizzazioni inglesi (inclusi il Wellcome Trust e il Medical Research Council) come anche il parere dell’Hinxton Group, un gruppo internazionale di ricercatori e bioeticisti. Il governo tedesco, intanto, ha annunciato questa settimana uno stanziamento di 3,5 milioni di euro per un progetto che approfondisca le implicazioni etiche, sociali e legali dell’uso del gene editing.