Frontiere. La bioingegneria ferma la spina bifida
La chirurgia prenatale è in grado di migliorare le condizioni dei bambini con spina bifida
La spina bifida è una patologia congenita provocata da un difetto di formazione nello sviluppo della colonna vertebrale, che presenta così una chiusura incompleta. Può manifestarsi in modi diversi, la più grave è la “spina bifida aperta” che può arrivare a influire sullo sviluppo dell’intero sistema nervoso centrale e compromettere la qualità di vita del bambino. In base al tipo di malformazione, infatti, possono svilupparsi deficit neurologici, alterazioni scheletriche, difficoltà nel controllo della funzione di alcuni organi interni, disturbi metabolici.
Accogliere una diagnosi di questo tipo non è certo semplice. È importante sapere, però, che la chirurgia può offrire importanti opportunità di correzione di alcune delle difficoltà che questa malformazione porta con sé. E la ricerca non si arresta nell’esplorare ulteriori possibilità.
È di pochi giorni fa la notizia di un importante finanziamento attribuito dal Consiglio europeo della Ricerca al progetto 3D.Fetoprint del professor Alessandro Pellegata, docente del Politecnico di Milano, relativo proprio a un nuovo metodo di trattamento della spina bifida aperta. «La nostra ricerca – ci spiega – coinvolge competenze diverse, dall’ingegneria biomedica a quella dei tessuti, alla chirurgia fetale, e ha come obiettivo un’operazione da effettuare con la chirurgia fetoscopica, alla quale oggi già si fa ricorso. Stiamo lavorando alla realizzazione di un gel, a base di cellule staminali prelevate dal liquido amniotico, che verrà stampato in tempo reale, durante l’operazione, con uno strumento fetoscopico che utilizza la tecnologia di 3D bioprinting. Si realizzerà così un “tappo” che andrà direttamente a chiudere la lesione».
Il bioingegnere Alessandro Pellegata - Collaboratori
L’idea di utilizzare le cellule staminali, aggiunge Pellegata, «ci viene da alcuni studi che hanno dimostrato come la loro presenza possa migliorare la chiusura e, potenzialmente, promuovere la rigenerazione del tessuto. Vogliamo arrivare a realizzare strumenti che permettano di eseguire un intervento più rapido e meno invasivo, adattandolo alle diverse esigenze dei pazienti».
La medicina si muove già da tempo nell’ambito della chirurgia fetale, così da correggere il prima possibile un danno che si sviluppa progressivamente durante la gestazione. «Già nel 2011 un importante studio americano ha evidenziato i vantaggi di un intervento effettuato prima della nascita e non dopo, come avveniva fino a quel momento – sottolinea la professoressa Gloria Pelizzo, direttore di Dipartimento all’Ospedale Buzzi di Milano –. La prima tecnica utilizzata è stata quella definita “open”, che prevede di arrivare alla schiena del bambino attraverso l’apertura dell’addome della mamma e dell’utero».
La chirurga Gloria Pelizzo - Screenshot
«A partire dal 2014, poi, si è iniziato a operare anche con interventi di chirurgia fetoscopica mini invasiva – aggiunge il professor Nicola Persico, chirurgo fetale al Policlinico di Milano –. Attraverso minuscoli fori nell’addome materno si inseriscono strumenti chirurgici “miniaturizzati” che arrivano nella cavità amniotica e permettono di appoggiare sulla schiena del bambino una “toppa” di biocellulosa che crea una chiusura ermetica».
Come per ogni contesto operatorio, anche per la chirurgia fetale possono esserci controindicazioni: una gravidanza gemellare, per esempio, un’alterazione cromosomica o un precedente parto cesareo. Così come, caso per caso, vanno valutati anche gli eventuali rischi, legati a un parto prematuro o alla rottura dell’utero. È fondamentale anche ricordare che l’intervento non è risolutivo, perché la spina bifida non si può guarire. I risultati fin qui ottenuti grazie alla chirurgia prenatale, però, evidenziano alcuni importanti cambiamenti nella qualità della vita di questi piccolissimi pazienti.
«La spina bifida – evidenzia Persico – è un difetto molto complesso, che dalla colonna vertebrale si ripercuote poi su altri organi. In genere, è associata innanzitutto a deficit motori che possono essere più o meno gravi. Ed è proprio su questo aspetto che l’intervento prima della nascita porta, in termini percentuali, i miglioramenti più evidenti. Un’altra conseguenza è il cosiddetto idrocefalo, ovvero un eccesso di liquor nei ventricoli cerebrali. La chiusura in utero riduce la circolazione di liquido – che potrebbe creare problemi allo sviluppo cerebrale – e rende meno frequente la necessità di un intervento di drenaggio alla nascita».
«Anche dopo l’intervento – conclude Gloria Pelizzo – questi bambini avranno comunque bisogno di essere presi in carico da un’équipe composta da più specialisti, per seguire un percorso riabilitativo e di fisioterapia. E questo è un aspetto molto importante da affrontare con i genitori, non solo per informarli ma anche per far sentire loro che non saranno soli. Nella mia esperienza ho potuto constatare che spesso ciò che più li spaventa è proprio la paura della solitudine, il timore di essere abbandonati in una situazione complicata e faticosa. In prospettiva, allora, il nostro obiettivo deve essere sempre di più anche quello di stare a fianco delle famiglie per supportarle e accompagnare i bambini nei momenti più delicati della crescita, con un progetto di cura che guardi al futuro».