Intervista. «Una società sempre più fragile ha bisogno di più cure palliative»
Gianpaolo Fortini, nuovo presidente della Società italiana Cure palliative (Sicp)
Gianpaolo Fortini che dirige la struttura complessa di cure palliative integrate nell'ASST 7 Laghi (Varese) è il nuovo presidente della Società italiana di cure palliative, eletto dai soci al congresso di Riccione, che si è concluso il 23 novembre, insieme a Danila Valenti, Bologna, vicepresidente, Marta De Angelis, segretaria, Spoleto, Giuseppe Intravaia, tesoriere, Palermo, Pierina Lazzarin, referente cure palliative pediatriche, Padova, Flavio Fusco macroarea nordovest, Genova, Gianpaolo Poles, macroarea nordest, Venezia, Filippo Canzani, macroarea centro, Firenze e Tommaso Fusaro macroarea sud e isole, Bitonto.
Ecco come Fortini descrive la situazione delle cure palliative prestate alle persone affette da malattie gravi ed inguaribili nelle strutture e nei servizi- pubblici e privati associati al Servizio Sanitario nazionale.
Le cure palliative sono una disciplina relativamente giovane nel panorama medico-scientifico, ma le novità in campo farmacologico sono frequenti: in base alle esperienze portate al congresso, il palliativista oggi dispone di strumenti efficaci per rendere l'uomo insensibile al dolore?
Sì, con efficacia nella maggioranza delle situazioni. Con una buona qualità di vita e una buona vita di relazioni. Abbiamo a disposizione molti farmaci per il dolore fisico e gli altri sintomi e, come medici palliativisti, siamo tra i professionisti più esperti nel loro utilizzo; oltre a questo possiamo contare su interventi non farmacologici per la gestione delle altre dimensioni della sofferenza. A volte, quando il dolore non risponde più ai trattamenti standard è doveroso proporre l’utilizzo di altri farmaci che consentono una riduzione dello stato di coscienza, di grado variabile, fino alla completa sedazione della persona. Si lavora sulla definizione di sintomo-refrattario da parte della persona dopo aver messo in atto tutti i possibili interventi secondo il criterio dell’appropriatezza: se un dolore non è controllabile in alcun modo da servizi e professionisti esperti, si ricorre a una sedazione palliativa che agisce su questo piano.
Quale dolore riuscite a spegnere e quale invece non potete cancellare?
Il dolore ha una componente nocicettiva, cioè legata ai meccanismi di trasmissione o decodifica dell'impulso dolorifico e della sua percezione finale, che determina risposte non solo fisiche ma anche emotive, psicologiche; di per sè, tali risposte amplificano la percezione del dolore in quanto tale. Ciò significa che non c'è mai un dolore uguale all'altro e ogni persona lo vive in modo diverso. La Iasp (International Association on the Study of Pain) definisce non a caso il dolore un'esperienza non soltanto sensoriale ma che presenta un’ampia dimensione soggettiva. Non si tratta quindi di una semplice trasmissione di stimoli, ma di impulsi che vengono elaborati. Ci sono dolori che sono complessi e problematici da controllare - li definiamo “difficili”, usando proprio questo termine - nel dolore cronicizzato e neuropatico, ad esempio. Alla difficoltà si somma poi il dolore definito globale che comprende la sfera della sofferenza sia fisica che psico emotiva.
Il fine vita è permeato da uno stigma ancestrale, di stampo apotropaico: come lo si supera in una società che vive sempre meno dolore e morte reali, fisici e umani, perché trasferisce ogni esperienza nel mondo virtuale?
L'esperienza che abbiamo noi palliativisti, che agiamo con una medicina di prossimità, ossia nelle case dei nostri assistiti condividendo momenti di vita reale e familiare, fino al momento della morte, ci consente di cogliere anche differenti contesti socioculturali, dove la morte può essere vissuta per alcuni come essa è un evento naturale e per altri no. Per anni e ancora in parte oggi, la morte è considerata ancora una sconfitta della medicina. Parlo di un vissuto dei malati delle persone malate e delle loro famiglie ma anche dagli stessi medici, infermieri e sanitari. Oggi si privilegia un approccio che passa dal paternalismo medico ad una visione partecipata della persona malata nelle scelte che lo riguardano, legata molto di più all'autodeterminazione e all’informazione della persona nel processo decisionale che porta al consenso della persona stessa.
Gli hospice italiani sono una risposta sufficiente alla domanda di assistenza?
I dati ci dicono che lo sviluppo dell'offerta di cura è a macchia di leopardo sul territorio italiano. Se il trend sociodemografico proseguirà come sembra avviato, sarà necessario rivederla verso l'alto. Serviranno cioè più posti letto. Una società più anziana e reti famigliari più fragili rendono più difficoltosa la possibilità di gestire percorsi assistenziali a domicilio e la casa come luogo di cura soprattutto per quei pazienti con bisogni molto complessi e molto medicalizzati per periodi prolungati. Lo stesso vale per gli Hospice pediatrici visto che al momento in Italia non sono ancora presenti in ogni regione, come invece richiesto dalla normativa vigente. I bambini con malattie inguaribili sono sostanzialmente in numero molto minore rispetto alla popolazione adulta ma, l’accesso alle cure palliative e all’Hospice pediatrico, deve essere garantito in ogni parte d’Italia mentre oggi lo è solo in 8 regioni.
Com'è messa l'assistenza domiciliare sui territori?
Anche su questo versante abbiamo un modello organizzativo in evoluzione. Il bisogno di cura e assistenza a livello locale è garantito da una serie di istituti che sono cure domiciliari, assistenza integrata, rsa, ospedali di comunità, centri per la disabilità... Per passare da questi contenitori alla rete di cure palliative ancora si transita - purtroppo - per il pronto soccorso, anche se la storia del malato è nota e il bisogno di cure palliative andrebbe identificato prima. Assistiamo ancora a una frammentazione dell'offerta di cura, che definiamo a silos impermeabili tra loro. Tocca ai programmatori risolvere il problema. Sicuramente, le cure palliative in Italia sono troppo spostate all’ultimo periodo di malattia, schiacciate sul fine vita, mentre la letteratura a livello internazionale raccomanda la presa in carico delle persone e delle loro famiglie precocemente almeno 1 anno prima della morte: oggi, ancora in molte realtà territoriali, abbiamo una degenza mediana di 10 giorni di presa in carico del paziente e questo, implica fare un lavoro diverso.
Esiste un problema di autonomia differenziata anche in questo settore?
Tema importantissimo che va dall'organizzazione alla finanza. La legge di bilancio del 2022 impegna le regioni a soddisfare il 90% di cure palliative entro alcuni anni ma è un traguardo molto lontano. Sono previsti piani di potenziamento annuali ma la programmazione sanitaria è diversificata. Il Covid ha dimostrato che le cure palliative sono un modello organizzativo che funziona perché è radicato sul territorio e integrato negli ospedali. Il punto di equilibrio è la vocazione della rete di convogliare tutte le risorse che ruotano intorno a queste popolazioni di malati in un percorso circolare tra territorio e ospedali. Le cure palliative rappresentano un Lea e ad oggi il numero di decessi negli ospedali - eventi attesi - è ancora elevatissimo e i Lea prevedono l'erogazione di palliative negli ospedali che è ancora non del tutto espressa.
Non c'è la fila per fare il palliativista. Avete discusso delle strategie per la formazione?
Moltissimo. Dal 2021 sono state attivate 16 scuole di specialità - medicina e cure palliative - che vedono un totale di 109 immatricolazioni sul triennio. Sono poche. Abbiamo cercato le motivazioni. Prima ancora delle scuole di specialità non si sono sviluppate le offerte formative nei corsi di laurea, cioè non tutti gli atenei prevedono crediti formativi per questa disciplina e quindi manca l'azione promotrice e di scoperta. Inoltre, l'accesso ad oggi non prevede l'equipollenza in uscita: per molte scuole di specialità una volta che hai il diploma puoi praticare la professione in discipline equipollenti - oggi può diventare palliativista un medico formatosi delle dieci specialità previste dal decreto del 2013 (anestesia, ma anche pediatria, oncologia...) mentre chi si diplomerà in questa scuola potrà fare “solo” il palliativista.
Lo specialista è sufficientemente supportato sul piano psicologico nel suo lavoro?
Questo è un dato che non abbiamo, anche se sarebbe auspicabile perchè questa disciplina non può essere esercitata in solitudine. Il suo punto di forza, del resto, è l'équipe multidisciplinare e multiprofessionale, nel confronto quotidiano. Ovviamente ci sono anche psicologi in questi gruppi di lavoro, ma un conto è il supporto al malato e un altro al professionista. Minore è il secondo e minore la qualità del servizio. Esiste una dignità del malato e della famiglia, ma anche dei professionisti: rientra in questa dignità il tempo dedicato a compensare energie che ogni giorno si consumano.
La Corte costituzionale parla di percorso delle cure palliative come prerequisito per il suicidio assistito. Cosa ne pensa?
Ne abbiamo fatto uno dei punti programmatici della lista con cui sono stato eletto e abbiamo ricevuto un ampio consenso, quindi è un tema centrale per noi. Siamo consapevoli che per la nostra consuetudine e competenza a lavorare accanto alla sofferenza più estrema e intorno alla morte rappresentiamo lo spazio umano, scientifico e culturale tra i più naturali per dialogare su questo tema. Ma non accogliamo il sillogismo “più cure palliative uguale meno suicidio medicalmente assistito”. Se la legge riconosce il diritto ad autodeterminarsi in tema di anticipazione della morte non è l’ambito delle cure palliative quello dove esercitare tare diritto, poiché in questo momento storico il rischio è di mettere sullo stresso piano due condizioni di bisogno e due risposte cliniche diverse. Da un punto di vista concettuale è ammissibile pensare che se lascio un malato solo e sofferente la disperazione può portare a una scelta senza alternative. Ma per lavorare sulla dignità del malato, indipendentemente dall'esito medico della patologia, si deve garantire a tutti di esser liberi dal dolore e dalla sofferenza. Per ottenere questo risultato, dal punto di vista etico e morale, dobbiamo ampliare tantissimo il periodo di presa in carico. Percorsi che durano qualche giorno non possono dare una risposta alla disperazione del malato: nessuno deve esser lasciato a decidere in quella condizione, perché non sarebbe affatto libero di esercitare la sua autodeterminazione.