Vita

L'intervento. «Ecco cosa non va nella delibera dell’Emilia-Romagna sul fine vita»

Domenico Menorello martedì 13 febbraio 2024

La terapia intensiva di un ospedale

Sul molto complesso tema del cosiddetto “fine vita”, ben venga un dibattito alto e pluralista sulle finalità perseguibili dal Servizio sanitario nazionale, ma allo scopo ogni attore deve interpretare con lealtà la propria parte. Allora, senza entrare in questa sede nel merito delle differenti visioni antropologiche che trascinano differenti concezioni anche del “bene” cui sono preposte le istituzioni (per chi scrive, si rimanda al libello L’eutanasia non è la soluzione, Cantagalli-Tempi, 2023), è necessario attirare l’attenzione su alcune gravi criticità metodologiche contenute nella recente iniziativa meramente amministrativa dell’Emilia-Romagna (dgr 194/24 e determina direttoriale 2596/24), che introducono nel dialogo pubblico anche inaccettabili mistificazioni.

1. Prima premessa: l’art. 97 della Costituzione accoglie il fondamentale principio di legalità, secondo il quale tutti gli atti amministrativi devono essere previsti da una norma legislativa, in quanto nella Repubblica è solo la rappresentanza legislativa l’interprete della sovranità popolare sancita dall’art. 1 della stessa Carta fondamentale. Ciò vale soprattutto per le prestazioni sanitarie erogate dagli ospedali pubblici. Sul punto, la giurisprudenza della Corte costituzionale è granitica nell’affermare che solo «il legislatore nazionale deve poter porre le norme necessarie per assicurare a tutti, sull’intero territorio nazionale, il godimento di prestazioni garantite, come contenuto essenziale di tali diritti, senza che la legislazione regionale possa limitarle o condizionarle» (cfr. sentenze Corte costituzionale n. 282/2002, n. 353/2003, n. 338/2003, n. 134/2006, n. 115/2012, n, 231/2017, n. 72/2020, n. 91/2020). Per tale ragione, la legislazione nazionale, fra cui l’art. 1, comma 554, della legge 208/2015 e l’art. 1, comma 7, D. Lgs n. 502/1992, ha affidato la fissazione dei livelli essenziali di assistenza (Lea) a un Decreto della Presidenza del Consiglio (cfr. Dpcm 12.1.2017).

Seconda premessa: molti chiedono che il Servizio sanitario pubblico assicuri una nuova prestazione, quale sarebbe l’assistenza medica e farmacologica a una persona che domandi un farmaco e modalità sanitarie idonee per suicidarsi. La domanda allora è semplice: esiste una legge o un Lea che preveda tale prestazione? La risposta è certamente negativa. Esistono ben due leggi sul cosiddetto “fine vita”, la 219/2017 e la 38/2010, ma nessuna prevede una prestazione sanitaria di procurare la morte. Di qui, i sostenitori del suicidio medicalmente assistito (Sma) hanno proposto 15 leggi regionali, benché le Regioni non abbiano alcuna competenza a legiferare in materia, come acclarato dal parere dell’Avvocatura generale dello Stato del 15 novembre 2023. Lo stesso governatore dell’Emilia-Romagna in un’intervista a Repubblica del 13 febbraio 2024, si dichiara «in attesa della legge nazionale», ritenendo che «fare 20 leggi regionali sul fine vita sarebbe ridicolo».

Invece, la determina direttoriale 2596/24, al punto 5, impone alle Aziende sanitarie emiliano-romagnole di «assicura[re] l’attuazione» del suicidio assistito con «l’individuazione di personale adeguato» nonché «fornendo» i farmaci indicati dagli organi consultivi, quindi introducendo una prestazione sanitaria obbligatoria priva di copertura di legge, e quindi illegittima per violazione degli artt. 97 e 117 della Costituzione.

2. Se non esiste alcuna legge che consenta una prestazione sanitaria (Lea) per procurare la morte, questa è forse consentita dalla sentenza della Corte costituzionale n. 242/2019, visto che il governatore dell’Emilia-Romagna, nella medesima intervista, giustifica i propri atti amministrativi anche «per dare applicazione alla sentenza della Corte»? Per la verità, se non vogliamo sovvertire le dinamiche costituzionali, mai si potrebbe invocare una sentenza come se fosse una legge-quadro del Parlamento (cfr. Antonio Ruggeri, Itinerari di una ricerca sul sistema delle fonti, Giappichelli, febbraio 2024).
In ogni caso, non è assolutamente vero che gli atti emiliano-romagnoli siano consequenziali al dictum della Consulta. Anzi, se ne allontanano sensibilmente.

In primo luogo, la sentenza 242/19 della Corte costituzionale è inequivocabile nel precisare che «la declaratoria di illegittimità costituzionale si limita a escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, senza creare alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici». Quindi, non si può prevedere – come invece accade con una semplice determina in Emilia-Romagna – un obbligo di prestazione sanitaria sulla base di tale pronuncia, che ha un significato del tutto diverso, solamente indicando, cioè, alcuni requisiti in presenza dei quali, e del tutto eccezionalmente, l’aiuto al suicidio non sarebbe penalmente perseguibile.
In secondo luogo, la stessa sentenza della Corte 242/2019 ritiene necessario che la verifica di tali requisiti avvenga a mezzo dell’«intervento di un organo collegiale terzo, munito delle adeguate competenze» e ha deciso che «nelle more dell’intervento del legislatore, tale compito è affidato ai comitati etici territorialmente competenti», individuati addirittura citandone gli estremi legislativi nazionali di riferimento, cioè «l’art. 12, comma 10, lettera c, del d.l. n. 158 del 2012» (poi legge 3/2018) e «l’art. 1 del decreto del Ministro della salute 8 febbraio 2013». Ebbene, si tratta dei cosiddetti Cet, Comitati etici territoriali, con competenze anche per il fondamentale profilo farmacologico, da ultimo costituiti in forza del dm 23A00852 del 26 gennaio 23 e che hanno una composizione omogenea sul territorio nazionale, sulla base dell’ulteriore dm 23A00853 del 30.1.23. Invece, la dgr emiliano-romagnola 194/2024 istituisce due comitati totalmente sganciati dalla normativa nazionale. È come se per suonare la Nona di Beethoven anziché un’orchestra sinfonica si incaricasse una rock band... Ne uscirebbe una musica ben diversa. Così, allo stesso modo, se ogni Regione potesse istruire comitati a proprio piacimento per interpretare i requisiti della Corte si otterrebbe esattamente quella babele in tema di prestazioni sanitarie incidenti sulla vita e sulla morte palesemente incostituzionale e che lo stesso Bonaccini bolla come risultato «ridicolo». Quel che è certo è che affidare le valutazioni di cui alla sentenza 242/2019 a organi diversi da quelli indicati dalla stessa pronuncia significa violare e non certo “applicare” i precetti della Corte.

3) Infine, la dgr 194/2024 assume fra i propri presupposti la decisione del Comitato nazionale per la Bioetica (24 febbraio 2023), ma nella propria motivazione non cita quanto effettivamente deliberato dall’organo consultivo del governo bensì la postilla di sette componenti che hanno dissentito non votando la delibera stessa. In effetti, il parere ufficiale del Cnb è esattamente nel senso opposto a quello che si legge nella delibera emiliana, perché, per le valutazioni sui requisiti per l’esimente dal reato ex art. 580 Codice penale indica «i Comitati etici territoriali di cui al decreto del 26 gennaio 2023» (gli stessi prescelti dalla sentenza della Corte). Non solo: lo stesso Cnb «ritiene anche che debba essere fatto ogni sforzo per evitare che vi siano approcci troppo differenziati o addirittura contrastanti nella valutazione delle condizioni indicate dalla Corte costituzionale», il che significa esplicitamente escludere la possibilità che ogni Regione si costruisca Comitati etici a propria immagine. Dunque, che l’Emilia-Romagna sia andata nella direzione opposta a quella auspicata dal Cnb, addirittura facendo intendere di seguire l’orientamento dello stesso organo di indirizzo bioetico, è decisione non solo certamente illegittima ma che costituisce anche un precedente inaccettabile sul piano delle corrette relazioni fra istituzioni.


Componente Comitato nazionale per la Bioetica
Coordinatore network “Ditelo sui tetti”