Irlanda. Famiglia, vita, donne: nei “no” ai referendum il contropiede della società
La campagna referendaria per le strade di Dublino
L’8 marzo il popolo irlandese è stato chiamato alle urne per un referendum su due proposte di modifica della Costituzione redatta nel 1937. La prima proposta (il cosiddetto emendamento Family) riguardava l’articolo 41.1.1 della Costituzione, che recita così: «Lo Stato riconosce la famiglia come l’unità naturale, primaria e fondamentale della società e come un’istituzione morale dotata di diritti inalienabili e imprescrittibili, antecedente e superiore a ogni diritto positivo». La nuova versione sarebbe stata: «Lo Stato riconosce la famiglia, sia essa fondata sul matrimonio o su altri rapporti durevoli (durable relationships)...». Nel comma successivo, il 41.3.1, dove si legge «lo Stato si impegna a custodire con speciale cura l'istituto del matrimonio, sul quale si fonda la famiglia», sarebbero state cancellate le parole «sul quale si fonda la famiglia».
La seconda proposta di modifica (emendamento Care) riguardava invece l’articolo 41.2. Questo il testo originale: «In particolare, lo Stato riconosce che con la vita domestica la donna fornisce allo Stato un sostegno senza il quale il bene comune non può essere realizzato. Lo Stato si sforzerà pertanto di garantire che le madri non siano costrette, per necessità economica, a svolgere un lavoro trascurando i loro doveri domestici». Al suo posto doveva essere adottata questa formulazione: «Lo Stato riconosce che la prestazione di assistenza (care) reciproca dei membri di una famiglia in ragione dei vincoli che esistono tra loro fornisce alla società un sostegno senza il quale il bene comune non può essere realizzato, e si impegna a sostenere tale prestazione».
Nel primo caso si trattava di relativizzare il concetto di famiglia, nel secondo di espungere ogni riferimento al ruolo domestico della donna – e della madre in particolare, come contributo al bene comune – da tutelare.
Il doppio referendum era supportato da tutto l’arco parlamentare, forze di governo (in primis Fianna Fáil, partito di maggioranza relativa) e di opposizione (in primis Sinn Féin), eccetto alcuni parlamentari indipendenti e una piccola formazione, Aontú, staccatasi anni fa dallo Sinn Féin in forza delle sue posizioni pro life. Anche il sistema mediatico era compattamente a favore delle modifiche costituzionali. Alla luce di ciò e del fatto che in altri due storici referendum recenti, 2015 e 2018, gli irlandesi avevano deciso di porre fine ai limiti costituzionali al matrimonio tra persone dello stesso sesso e all'aborto, anche l’esito di questa consultazione pareva scontato. E invece gli irlandesi stavolta hanno detto no. Con numeri sorprendenti.
Il premier irlandese Leo Varadkar, sostenitore del sì, e la senatrice Mary Seery Kearney al seggio - Ansa
Con un’affluenza del 44,4%, il referendum Family ha visto il “no” vincere con il 67,7% contro il 32,3% del “sì”; nel referendum Care il “no” ha toccato il 73,9% contro il 26,1% dei “sì”. Quest’ultimo risultato rappresenta la più alta percentuale di voti “no” tra tutti i referendum mai tenutisi nell’Isola di Smeraldo. Nella contea del Donegal i “no” hanno addirittura superato l’80%.
«Terremoto politico», «shock», sono stati termini e concetti ricorrenti nei commenti sui media, che continuano a fluire nonostante siano passati oltre dieci giorni dal voto. Fino a titoli come «L'inaspettata sconfitta dei referendum dimostra il crescente potere dei cattolici tradizionali irlandesi» (Religion News Service), impensabili fino a poco fa, visto che la presenza cattolica veniva data ormai per residuale.
Ma è cosa è successo veramente?
«È stata come un’esplosione, uno di quegli eventi per decifrare i quali ci vogliono settimane, forse mesi» ci dice al telefono Angelo Bottone, che da 20 anni vive e insegna filosofia a Dublino, ricercatore presso il think tank Iona Institute: «C’è stata una convergenza di realtà molto diverse fra loro. Sul referendum Care anche le femministe radicali si sono trovate d’accordo con le voci conservatrici nel rifiutare la cancellazione di ogni riferimento esplicito alla donna e alla madre. Femministe radicali che sono poche ma combattive e hanno convinto numerose donne con le loro argomentazioni. Tuttavia parliamo di alcuni punti percentuali, non del grosso di questo voto». Voto che, ricorda Bottone, invece non ha colto di sorpresa l’elettorato: «Al referendum ci si è arrivati dopo 15 anni di dibattiti: la prima commissione parlamentare creata per affrontare questi temi risale addirittura agli anni ‘90».
Quindi nessun fraintendimento. «Si respira un’aria di protesta antisistema – aggiunge Bottone –, simile a ciò che sta avvenendo in altri Paesi europei ma che qui deve ancora trovare un’espressione politica. L’Irlanda è un Paese che ha vissuto il processo che negli altri Paesi europei è durato 60 anni: il passaggio da una relativa povertà al boom economico, da una società tradizionale a una secolarizzata, ma l’ha fatto in ritardo e in modo accelerato. Ora è come se dopo l’euforia emergessero numerosi problemi. A partire dal rapporto con l’immigrazione».
Un seggio per il referendum dell'8 marzo - Ansa
Ma che ruolo ha giocato la Chiesa in questa vicenda elettorale? «I vescovi prima del voto hanno pubblicato un comunicato moto chiaro, motivando bene i due no al referendum – spiega sempre Bottone – ma non hanno fatto molto altro, non si sono messi al centro della campagna per il “no”, ed è stata una scelta anche strategicamente centrata. Ha impedito infatti che venisse riproposta la contrapposizione “vecchia Irlanda contro nuova Irlanda” che aveva caratterizzato gli altri referendum su aborto e matrimonio gay. Stavolta non è stato possibile bollare i rappresentanti del “no” come i soliti bigotti».
Per Carol Nolan, eletta nel 2020 nella Camera bassa del Parlamento irlandese come indipendente, nota per il suo impegno politico pro life, il voto è stato «un rifiuto dell’agenda woke che è stata imposta da un governo scollegato dalla realtà». In particolare un rifiuto «dell’invasione delle Ong – ne abbiamo 34mila in Irlanda – che ricevono ogni anno dallo Stato fondi per 6 miliardi di euro. Non rappresentano il sentire dei cittadini, ma fanno un potente lavoro di lobby, e anche in questo hanno cercato di cambiare la Costituzione».
Solo che stavolta è emerso qualcosa che ha sbarrato loro la strada. Come ha scritto il Catholic Herald: «La denigrazione dell'eredità cristiana da parte dell'establishment irlandese ha ricevuto la prima smentita». E da qui bisogna ripartire.
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