L'Avvenire di Calabria. «Io 23enne sorda, testimonial censurata perché contro l’aborto»
Anna Bonetti, 23 anni, sorda per un'anomalia congenita, testimonial della campagna che contesta l'idea dell'aborto come "diritto" e che ha suscitato molte polemiche
In seguito alla recente decisione del sindaco di Reggio Calabria Giuseppe Falcomatà di far rimuovere i manifesti della campagna Pro Vita & Famiglia contro l’aborto – manifesti che, vale la pena ricordarlo, erano stati legittimamente affissi – ci siamo chiesti chi fosse quella persona così giovane che ha deciso di prestare il suo volto alla campagna della onlus di Roma.
Tra i commenti al post Facebook di Falcomatà abbiamo notato quello di Anna Bonetti: «Sono io, la ragazza del manifesto». E così è stato facile entrare in contatto con la protagonista – suo malgrado – del dibattito politico e sociale del week end cittadino.
Abbiamo scoperto, da un rapido sguardo sul profilo Facebook, che Anna è una ragazza di 23 anni con una marcia in più. Appena sotto il suo nome, sulla pagina social, si legge: «Essere sorda non è una disgrazia, ma una vittoria per la quale ho lottato». È stato quasi istintivo chiederle cosa significa questa frase. «L’ho tratta da una poesia che scrissi tanti anni fa, quando ancora ero una ragazzina – ci racconta –. Nella mia vita la sordità è stata spesso vista come una disgrazia, a scuola sono anche stata vittima di bullismo al punto che ho cambiato scuola tre volte. Infine questo mi ha portato a realizzare che la mia sordità mi ha insegnato ad essere più forte ad affrontare gli ostacoli quotidiani. Inoltre, ho scritto un romanzo verosimile che tratta la storia della mia sordità; e spero con tutto il cuore di riuscire a pubblicarlo un giorno per diffondere nel mondo un’adeguata consapevolezza di ciò che siamo».
Questo tuo percorso dove ti ha portato?
Devo soprattutto alla mia sordità la persona che sono oggi, è proprio grazie ad essa che ho preso consapevolezza sull’importanza di difendere la vita umana innocente ogni volta che viene attaccata prima della nascita. Per gran parte della mia vita mi sono sentita un errore, un pezzo difettoso della fabbricazione umana. Infine ho compreso che l’errore non ero io, bensì il modo in cui la società mi aveva vista fino a quel momento e credo profondamente che sia l’ora di restituire a ognuno la dignità che merita.
Come hai fatto?
Ho imparato a parlare grazie alla logopedia e all’impianto cocleare, e conosco anche la lingua dei segni, che mi aiuta ad avere una marcia in più nella comunicazione. È proprio grazie a questa meravigliosa lingua che oggi lavoro come assistente in una scuola in cui ci sono 60 bambini sordi, proprio come me. Amo il mio lavoro e aiutare i bambini sordi come me ad accettare la propria sordità, a farsi valere in un mondo che ogni giorno pone barriere all’inclusione. Basti pensare che qualche giorno fa in Parlamento si è parlato di esonerare gli alunni disabili da parte delle materie scolastiche.
È terribile...
Esatto, è come se preoccuparci di farci fuori - come spesso avviene anche mediante l’aborto eugenetico - fosse più importante che cercare soluzioni valide per creare una società più inclusiva per noi. Ed è proprio quest’ultimo punto che mi tocca moltissimo. Infatti è stato proprio quando ho scoperto che anche coloro che vivono la mia stessa condizione vengono eliminati per mezzo della diagnosi prenatale che ho iniziato a unirmi alla battaglia in difesa della vita umana innocente. Infatti, la mia sordità è genetica poiché i miei genitori sono portatori della connessina 26, ossia il gene che causa la sordità congenita. Inoltre sono anche venuta a conoscenza dell’agghiacciante verità di coppie che sono ricorse alla fecondazione assistita per evitare un secondo figlio sordo. È davvero paradossale come in una società che ogni giorno si autoproclama paladina della tutela del diverso (migranti, la comunità Lgbt, e anche la disabilità) allo stesso tempo quello che è diverso viene sterminato prima della nascita. Basti pensare all’Islanda e alla Danimarca in cui la nascita di bambini con sindrome di Down è prossima allo zero. Da allora mi sono resa conto che non potevo più tacere di fronte all’ipocrisia del mondo e che era giunto il momento di agire e di operare per il bene.
Quando hai iniziato?
Tre anni fa, nel periodo in cui ho vissuto a Roma per via dei miei studi universitari. È stato esattamente in quel periodo che ho conosciuto gli Universitari per la vita (Upv). Finalmente avevo compreso che non ero l’unica pro-life e che in realtà le persone che hanno le nostre idee sono molte più di quello che si pensa e, come possiamo vedere in questo caso, vengono spesso censurate. Successivamente questo mi ha spinta a diffondere la cultura dalla vita sui social media, e da allora hanno iniziato a seguirmi tante persone interessate a questa causa. In seguito sono diventata ambasciatrice di Live Action. Sui social media, Live Action conta un totale complessivo di circa 4 milioni di followers ed è il più grande movimento pro-life al mondo. Di conseguenza ho continuato a informarmi per conto mio, anche grazie al supporto del mio gruppo Upv, e ho continuato a diffondere la cultura della vita sui social e nella vita quotidiana, anche dialogando con la gente. Non è stato facile per me andare controcorrente poiché né la mia famiglia né la società mi avevano mai trasmesso la cultura della vita, bensì è stata l’esperienza a fornirmi la consapevolezza dell’ipocrisia del mondo. Sicuramente è una battaglia difficile, ma la gioia che se ne ricava è impagabile. Credo che non esista causa più nobile che battersi in difesa della vita umana innocente.
Perché hai prestato il tuo volto a questa campagna di Pro Vita e Famiglia?
Ho deciso di metterci la faccia perché la causa mi sta molto a cuore, e già dal mio attivismo sui social mi sono resa conto quanto portare la verità alla luce dei fatti sia un’arma potentissima per aiutare le persone a cambiare le menti e i cuori sul tema dell’aborto, specialmente tra i giovani. Appena Pro Vita mi ha proposto di essere la testimonial della loro campagna ho capito che era giunto il momento di fare il grande salto.
L’aborto è un tema che divide, spesso causa contrapposizioni ideologiche. Secondo te perché non si riesce a parlare serenamente di questo tema?
Innanzitutto perché non si parla dell’aborto per quello che è davvero, specialmente nelle scuole. Si parla spesso di educazione sessuale, contraccezione, e mai della responsabilizzazione delle proprie azioni, come ad esempio del fatto che la gravidanza sia una delle possibili conseguenze di un rapporto sessuale. Inoltre credo che sia ancora troppo forte il pregiudizio che l’aborto sia un problema solamente religioso, quando in realtà si tratta di una questione che coinvolge tutti gli aspetti della persona a prescindere dal credo che confessa. Credo che sia fondamentale spezzare questo tabù imparando ad affrontare la realtà da una prospettiva laica. Ci hanno inculcato il grande inganno che per essere donne libere dobbiamo sbarazzarci dei nostri figli se questi giungono nella nostra vita in un momento difficile, al punto che non si riesce a comprendere che in realtà questo ci rende schiavi di un sistema totalitario che vuole imporci come dobbiamo essere. A volte vi è la concezione che essere contro l’aborto significhi essere contro la libertà, mentre l’unica libertà che viene negata è quella del concepito, che in quanto essere umano non ha alcun diritto.
Tre consigli che vuoi dare ai giovani liceali di oggi: cosa fare per essere veramente liberi?
In primis gli consiglierei di informarsi autonomamente sui temi etici come l’aborto e non limitarsi al sentito dire. Li invito di cuore ad approfondire autonomamente la realtà oltre quello che viene insegnato a scuola. Basti pensare alle lezioni di educazione sessuale che parlano molto di contraccezione, senza in realtà spiegare ciò che realmente è l’aborto e la violenza che si nasconde dietro la soppressione di un essere umano innocente. Inoltre, per i giovani in età liceale, esiste il comitato dei liceali per la vita, studenti che si impegnano a diffondere la cultura della vita in ambito scolastico. Unirsi a una realtà di questo tipo li aiuterebbe a creare intorno a sé una rete di amicizie costruttive che invogliano a operare per il bene.
In secondo luogo gli consiglierei di prestare particolare attenzione al mondo dei social e ai cosiddetti influencer. Per carità, non ho nulla contro di loro, e io stessa sono una mini-influencer oltre che un’attivista pro-life. Credo molto nell’utilità dei social, ma credo anche che troppo spesso diano esempi sbagliati e privi di moralità. Penso che un vero influencer, oltre a promuovere le tendenze del momento, dovrebbe essere una figura in grado di restituire alla società i valori perduti. Basti pensare a don Alberto Ravagnani, il giovane sacerdote influencer che sta spopolando sui social. Lo seguo molto volentieri perché ritengo che pur essendo all’avanguardia sia molto capace di comunicare con i giovani e sappia anche trasmettere dei valori concreti, oltre l’apparenza che spesso ci viene proposta dalla società. Perdere i nostri valori significa perdere la nostra umanità.
Infine consiglierei loro di riempire il tempo libero in attività costruttive come il volontariato, oppure un lavoretto che possano conciliare con lo studio. Io stessa ho iniziato a lavorare come baby sitter a 18 anni ed è stata un’esperienza molto formativa per me. Credo che con questa mentalità avremmo davanti a noi adulti più sicuri di sé e delle proprie capacità, mentre a volte la sfiducia nel futuro e la noia portano purtroppo i giovani a sfogarsi nelle droghe e nell’alcool, nell’illusione di trovare conforto, mentre in realtà fanno parte di tutto ciò che porta alla propria autodistruzione. Credo che circondarsi di persone positive che abbiano fiducia in loro e nelle loro capacità sia la chiave per un futuro di successo.
Vuoi dedicare un pensiero al sindaco Falcomatà, che ha deciso di censurare i tuoi manifesti?
Credo che di fronte alla nostra campagna il Pd più che democratico si sia rivelato l’opposto. “Democratico” sembra valido finché la pensi come loro, in caso contrario vieni etichettata come un’istigatrice all’odio, alla violenza. Come se le donne dovessero essere obbligate ad essere tutte femministe e liberali, come se dovessero essere tutelate finché sono d’accordo, altrimenti meriti di essere perseguitata e imbavagliata. Vorrei far presente al sindaco che se l’aborto è davvero un diritto della donna a maggior ragione le donne hanno diritto di conoscerlo per quello che è realmente. Chi paga per un “diritto della donna” è suo figlio e non un grumo di cellule, come si tende a dire quando si cerca di storpiare la realtà a seconda dei nostri comodi. Inoltre il sindaco ha dichiarato inconcepibile che il mio manifesto fosse stato affisso nei pressi di una scuola, perché la scuola è un luogo di cultura. Mi chiedo che cultura sia insegnare alle donne che sono “libere” di sopprimere i propri figli prima della nascita. Mi chiedo che cultura sia bombardare ragazzini su educazione sessuale e contraccezione. La vera educazione sessuale si fa aiutandolo a responsabilizzare le proprie azioni, per esempio mettendoli al corrente del fatto che qualsiasi tipo di contraccezione può fallire. In una società civile ognuno è responsabile delle proprie azioni: si puniscano gli stupratori veri e propri, non gli esseri umani innocenti nel grembo materno.