È VITA. L'informazione italiana rimandata in bioetica
Lo studio parte dalla considerazione che il giornalista che tratti di bioetica si trova ad affrontare temi che rientrano in due ambiti eterogenei: «La bioetica coinvolge campi strutturalmente diversi come quello fattuale (questioni scientifiche, biomediche e tecnologiche) e quello valoriale (questioni morali, giuridiche, religiose, politiche) – spiega Colloca –. La nostra ricerca muove da questa duplicità e propone alcuni strumenti specifici per il trattamento giornalistico della bioetica». Da questi due elementi imprescindibili derivano altrettante importanti conseguenze: «L’elemento fattuale vuole che il giornalista sappia riconoscere quali teorie sono conformi al metodo scientifico. Potremmo dire che non si richiede al giornalista scientifico di essere uno scienziato, così come non si richiede al cronista di nera di essere un malvivente ma di avere piena consapevolezza dei problemi epistemologici. L’elemento valoriale esige invece che il giornalista renda riconoscibile ciò che sta facendo: se sta propugnando una tesi, se sta riportando un punto di vista altrui, se sta dando conto di tutte le opinioni in campo».
Come rilevato dallo studio di Colloca, negli ultimi trent’anni la domanda di informazione medico-scientifica in Italia è cresciuta enormemente. Già tre anni fa Giuliano De Marco nel volume La bioetica in redazione (Cantagalli), introducendo l’analisi di quindici anni di pubblicazioni relative a più di 20mila articoli selezionati, portava le prove che «la bioetica è in prima pagina. E non sono episodi isolati». Nel ripercorrere le pagine dei quotidiani tra il 1996 e il 2010, De Marco metteva l’accento su una domanda fondamentale: in che modo la stampa italiana abbia risposto e continui a rispondere alle domande sollevate dalle grandi questioni che riguardano la vita di ciascuno. Ecco perché è utile proseguire un monitoraggio aggiornato del rapporto tra bioetica e media. «Questa ricerca nasce per tre ragioni – racconta Colloca –. In primo luogo, semplicemente, perché l’interesse degli italiani e dei media italiani per la bioetica è in forte crescita. Poi, perché purtroppo il dibattito bioetico nei media è talvolta viziato da assenza di reale dialogo tra i diversi punti di vista: la fazione prevale sull’argomentazione. Infine, perché l’informazione bioetica è un terreno fertile per l’elaborazione di un modello di analisi deontologica che potrà essere utilizzato per altri settori, come l’informazione politica e l’informazione economica, anch’esse caratterizzate dalla compresenza di fatti e valori».Mediamente, come si comporta il mondo dell’informazione nel trattare temi eticamente sensibili? «Abbiamo analizzato servizi giornalistici di bioetica pubblicati nei primi sette mesi del 2013 sui primi cinque quotidiani nazionali per diffusione. Sulla base di questo criterio, non abbiamo potuto includere Avvenire, che pure si occupa costantemente di scienza e bioetica, come tutti vedono. Da questa indagine risulta che nel 65% dei casi i servizi giornalistici non prendono una posizione definita; il 30% sostiene un punto di vista in modo riconoscibile; il 5% lo fa in modo non riconoscibile».Stante la constatazione che la copertura dei quotidiani analizzati si aggira sul milione e mezzo di copie, è legittimo chiedersi quale sia il principale onere di un giornalista che voglia parlare di scienza, salute e bioetica. Stefano Colloca fornisce una stimolante chiave interpretativa: «Farei una distinzione. Per l’informazione bioetica il dovere più rilevante è quello di rendere riconoscibile ciò che si sta facendo. Per l’informazione medico-scientifica è quello di separare la scienza dalla pseudo-scienza e la medicina dalla pseudo-medicina. Operare correttamente questa distinzione è, nei limiti del possibile, un servizio che l’informazione scientifica deve rendere al lettore. Riportare teorie destituite di fondamento scientifico non è un omaggio al pluralismo delle idee, ma soltanto cattiva informazione».