I 150 anni dell'Istituto. Il mondo della cura è «Serafico»
Le carezze e i sorrisi. I loro passi a volte pesanti lungo i corridoi, la pandemia che fa inventare una radio, le difficoltà da battere come i pregiudizi altrui, una storia che dura da un secolo e mezzo, i sogni grandi e piccoli da non far scadere o cadere. L’Istituto Serafico di Assisi è bello. Grande. Moderno.
Viene considerato «modello di eccellenza italiana e internazionale nella riabilitazione e nell’innovazione scientifica per bambini e giovani con disabilità fisiche, psichiche e sensoriali». Potete incontrarci Fabio. O Giorgia. O Andrea. Fabio, napoletano, balla ch’è uno spettacolo. Passeggiamo, entriamo per caso nel teatro del Serafico, sale sul palco, qualcuno mette la musica e lui si muove tanto bene che non te l’aspetti. Ed è evidente che si goda la sua danza. Ha disabilità psichiche plurime, è vero, importa poco o nulla. Un’ora fa era nel laboratorio di ceramica e stava lavorando a un vaso che nemmeno nella famosa scena di Ghost. Sorridendosela. Sornione.
Oppure ecco Giorgia. Uno scricciolo. Capelli neri. Veneta. Sdraiata sui suoi cuscini. Rannicchiata, quasi immobile. Una disabilità gravissima. Diciassette anni, pesa forse trenta chili o giù di lì. Eppure il suo respiro va a tempo con le carezze, e fino a poco tempo fa non si lasciava toccare o abbracciare nemmeno da mamma e papà senza avere crisi. Eppure i suoi occhi sono una fiondata di tenerezza. E un istante, uno solo, sorride. I genitori hanno comprato un piccolo appartamento ad Assisi per poter venire spesso a trovarla, lei ne è certamente contenta.
Un laboratorio per le attività manuali dedicate ai disabili ospiti dell'Istituto Serafico di Assisi - P.C.
«Qui abbiamo toccato con mano la carità e l’aiuto incondizionato agli altri – dice suo papà, Luca –. Questa è fede concreta». O, ancora, Andrea. Che stupisce la sua educatrice, Silvia Contini: «Ma come – gli fa lei –, di solito impieghi dieci minuti per mettere le forme nei loro alloggi, adesso solo uno?». E ridono insieme. C’è Giorgio, ventinove anni: «Una volta in un ospedale volevano fargli un esame e hanno provato a contenerlo fisicamente in quattro, col risultato di agitarlo. Altri rinunciano in partenza – racconta mamma Anna –. Ma io so che esistono persone preparate che questi esami possono eseguirli, come avviene qui».
L'ingresso del Serafico - P.C.
Il Serafico è convenzionato con il Servizio sanitario nazionale per trattamenti riabilitativi residenziali, semiresidenziali e ambulatoriali. Accoglie ogni giorno 165 disabili (102 residenziali e 63 semiresidenziali) da 15 regioni. Ogni ragazzo ha un percorso individuale, non tutto va bene per tutti. A mettere insieme un po’ di numeri vengono fuori grandi dimensioni: 13.219 trattamenti riabilitativi e 24.236 educativi-occupazionali nel 2019, dei quali 10.820 realizzati nei laboratori, 12.012 nelle residenze e 1.404 per i semiresidenziali. Oltre a 142 visite spe- cialistiche per 43 persone, 60.510 pasti preparati e 115.000 chili di biancheria lavata. I professionisti al servizio dei disabili sono 186, aiutati da 36 volontari: tutti con motivazione, capacità e competenze, ma soprattutto «un 'capitale di umanità' in grado di entrare in sintonia con i pazienti».
Aumentare la cognizione è naturalmente importante, qui la relazione lo è di più: «Cerchiamo soluzioni cliniche e riabilitative che diano priorità alla qualità del prendersi cura e della vita», spiega Marina Menna, fisiatra del Serafico. Del resto il fatto «più bello è vedere la loro gioia quando fanno le cose – dice Sandro Elisei, direttore sanitario dell’Istituto –. Qualcuno può pensare che questo sia luogo di sofferenza: in realtà qui i nostri ospiti esprimono i loro talenti». Non succede di rado che loro accolgano «ragazzi con diagnosi grave o gravissima che altre strutture non hanno voluto – prosegue Elisei –. Ma noi non curiamo il limite, ci prendiamo cura della persona con limiti, forse la cosa più difficile. Ma anche la più bella». L’obiettivo principale – spiega Stefania Moretti, educatrice – «è dare potere al ragazzo di esprimersi, è renderlo consapevole delle proprie potenzialità, farlo agire in modo costruttivo».
Uno scorcio dell'interno del Serafico - p.c.
A proposito d’esprimersi, un altro spettacolo è la radio. Con la pandemia qui hanno fatto di necessità (le chiusure) virtù. Ed è saltata fuori quest’idea: Coloradio, la web radio dei ragazzi del Serafico, che magari faticano a parlare ma davanti al microfono diventano sciolti come professionisti. «Abbiamo voluto dare la possibilità ai ragazzi nei periodi di chiusura di avere contatti col mondo esterno, di dire che loro ci sono e hanno una voce», racconta Stefano Tufo, responsabile del laboratorio musicale e della radio: «L’unica a colori», come la lanciano i ragazzi appena vanno in onda. Peccato che la parte più divertente «siano i fuori onda – dice sempre Tufo –, quando viene fuori di tutto... ».
La storia del Serafico inizia il 17 settembre 1871, quando san Ludovico da Casoria accoglie i primi ragazzi disabili e «comincia senza l’ombra di un quattrino, ma fiducioso nella divina Provvidenza e nella bontà di tanti cuori – ricorda il vescovo di Assisi-Nocera Umbra-Gualdo Tadino, monsignor Domenico Sorrentino –. Ancora oggi per finanziare la sua opera, al di là dei contributi pubblici, l’Istituto conta su una vasta rete di solidarietà. Ed è un fiore all’occhiello della comunità ecclesiale». Il venerdì sera è la giornata 'centrale' della settimana: in qualche modo quella speciale. A chiederglielo Elisei sorride: «Accade che c’è la pizza e i ragazzi sono appassionati di pizza, l’aspettano con entusiasmo, con passione, e vederli mangiare, anzi abbuffare, con la pizza, è un altro spettacolo».
La presidente Di Maolo: il nostro segreto sono i volti e le mani che accolgono
La storia del Serafico è lunga, «abbiamo attraversato tante prove», spiega la presidente, Francesca Di Maolo: «Basti pensare che abbiamo attraversato due guerre mondiali, un terremoto e la pandemia...». E ricorda come durante il secondo conflitto mondiale il vescovo di Assisi Giuseppe Placido Nicolini «avesse fatto mettere sul tetto dell’Istituto una grande croce, perché dall’alto si vedesse che lì c’erano persone malate e non venissero bombardate».
Il terremoto del 26 settembre 1997 «colpì gravemente questa struttura – continua la presidente – e costrinse i ragazzi fuori dall’edificio. Pensammo che difficilmente saremmo potuti tornare». Oggi ha in mente un’immagine ben precisa: «I volti delle persone che lavorano qui. E le loro mani. Perché sono mani al servizio di un amore più grande, che assistono, lavano, curano, sostengono, abbracciano. Ecco, questi volti e queste mani sono il Serafico».
C’è anche un’emozione particolare: Alessandro era molto grave, «un ragazzo affidato a noi da tanti anni. La sera della vigilia di Natale di alcuni anni fa era ricoverato in ospedale e sembrava stesse meglio. Invece appena tornai a casa mi chiamarono: non ce l’aveva fatta. Capii che siamo chiamati a occuparci dei nostri ragazzi anche nella morte. Anche dopo». Nel rapporto con questi ragazzi «loro ci aprono il cuore. Nessuno come Alessandro mi aveva mai fatto vedere un amore più grande».
Infine il Covid: «È stato durissimo – continua Di Maolo –, ci siamo trovati più che mai responsabili delle vite di questi ragazzi ed è stato duro chiudere le porte dell’Istituto, quando in tutti questi anni abbiamo cercato di creare ponti col mondo esterno». Il virus è entrato, «siamo riusciti a contenerlo, ma si è portato via un ragazzo, senza famiglia, arrivato qui quando aveva quattro anni...»