Intervista. Mario Colombo: «Il lavoro per la salute è il più bello del mondo»
Mario Colombo, direttore generale Irccs Auxologico
«Operare in sanità significa fare il lavoro più bello del mondo, perché si punta al bene assoluto, la vita delle persone». Mario Colombo, direttore generale dell’Irccs Auxologico, offre uno sguardo ispirato ma concreto per affrontare i molti problemi dell’assistenza sanitaria: «Le risorse vanno orientate correttamente, ma occorre anche lavorare bene, con correttezza. Va compreso il valore della prevenzione, e bisogna chiarire un percorso istituzionale nelle decisioni che tenga nella giusta considerazione la sussidiarietà, valorizzando il privato non profit».
Con la pandemia la sanità, definanziata per anni, ha mostrato tutta la sua importanza. Ma la questione risorse è un nodo: come si scioglie?
Imprenditorialità significa organizzare correttamente risorse economiche e umane per raggiungere un risultato. Ma nella sanità è un risultato molto particolare: la vita di una persona, quindi il bene assoluto, primario (se uno è credente, un bene sacro e indisponibile), diverso dal mero profitto o dal miglioramento di una performance. Questo conferma la mia idea che facciamo il lavoro più bello del mondo perché curiamo un bene assoluto, che è la vita delle persone. Ma per quanto il bene sia di valore assoluto, le risorse economiche sono purtroppo limitate. Quindi c’è un problema di eticità nel lavorare in sanità, che ha almeno due aspetti: occorre fare scelte cliniche e di ricerca a favore della vita, che non mettano mai in discussione l’origine della vita stessa, il suo decorso, e la sua indisponibilità. In secondo luogo l’eticità si esplica nel fare bene il nostro lavoro: quindi non prescrivere inutili accertamenti diagnostici, non fare ricerche inutili, non indugiare nelle decisioni, essere sempre professionalmente aggiornati. Ma c’è anche un altro equilibrio, quello tra deriva tecnologica e conoscenza di problemi e fattori che determinano la salute delle persone. Oltre al rischio di spersonalizzare la relazione di cura, occorre interrogarsi sull’effettivo valore di investire in apparecchiature costosissime ma di cui beneficiano pochi, rispetto a interventi che riguardano molti pazienti. Le persone si ammalano perché hanno stili di vita non corretti, alimentazione povera, tasso di educazione insufficiente. E anche perché non hanno il lavoro. Oltre allo sviluppo della scienza, che è doveroso, bisogna puntare molto di più a una promozione dei fattori sociali ed economici che possano consentire alla persona una vita “normale”.
Questo discorso chiama in causa la prevenzione. Come far capire che è un investimento e non un costo?
La prevenzione è uno dei grandi classici: tutti la condividono, tutti la vogliono, ma ci sono sempre difficoltà nell’attuazione, perché i risultati non sono immediati ma di lungo periodo. Tra ridurre il ticket sanitario di qualche euro o fare investimenti importanti sulla prevenzione, la politica spesso sceglie la prima opzione da cui può trarre subito risultati positivi. Eppure la prevenzione potrebbe portare a esiti ancora migliori per la salute dei cittadini e l’economia dello Stato. Crescono i pazienti cronici, che rimangono in contatto con la sanità per tutta la vita, generando costi. Ma per molte patologie l’approccio preventivo potrebbe allontanare nel tempo la cronicizzazione e renderla meno gravosa per il paziente, la famiglia e il servizio sanitario. Un esempio è la lotta all’obesità, che comporta l’incremento di tante malattie: diabete, colesterolo, ipertensione, sindrome metabolica, tumori, dolore cronico.
Andrebbero anche potenziati gli screening?
Certo, sono ancora pochi. Quelli più diffusi, per il tumore al colon e al seno, non coprono il fabbisogno reale. Ma si muore anche per infarto, ictus, tumore ai polmoni, e per queste patologie non ci sono screening, che richiederebbero grossi investimenti. Prevenzione è anche la riabilitazione dopo un evento acuto traumatico (frattura, evento cerebro-cardiovascolare): se non accede a un intervento riabilitativo adeguato, un anziano cronicizzerà la sua disabilità. Facciamo grossi investimenti nell’emergenza- urgenza, ma un’ampia fascia di popolazione anziana con problemi medici cronicizzati ha difficoltà ad accedere a un’offerta sanitaria qualificata.
Va rivista la regionalizzazione sanitaria?
In pandemia, in emergenza, si è ritenuto che centralizzare le decisioni fosse una scelta inevitabile. Ma la sanità è una competenza regionale o al più concorrente con lo Stato. E sono emerse difficoltà del nostro sistema di fronte alla necessità di assumere decisioni immediate e urgenti a favore di tutta la nazione. Va definito in maniera migliore il ruolo dello Stato e quello delle Regioni. Anche in vista dei prossimi impegni, per esempio il seguito della campagna vaccinale.
Oltre a Stato-Regioni, in Italia c’è un dualismo pubblico-privato. Aiuta o è d’ostacolo?
Anche qui c’è un equilibrio da raggiungere. Occorre dare più voce, ruolo e capacità alle organizzazioni nel sociosanitario, in particolare a quelle non profit. Tra sanità pubblica e privata for profit, c’è la terza via della sanità gestita da organizzazioni non profit, che ha molta maggior sinergia di obiettivi e di approccio con l’istituzione pubblica. Servono scelte coraggiose, valorizzando queste realtà, che svolgono una funzione di sussidiarietà rispetto a quella dello Stato, ma spesso sono relegate a un ruolo di integrazione di quello che fa lo Stato. Succede spesso, anche a noi di Auxologico, di curare tante persone senza che i sistemi regionali coprano i relativi costi per superamento dei budget assegnati. Ciò significa che i bisogni della gente sono superiori alle risorse stanziate. Ci deve essere un incremento di quello che lo Stato e le regioni riconoscono alle strutture sanitarie.
Il personale sanitario ha spesso lamentato scarsa attenzione. Quanto conta il fattore umano?
La sanità è fatta di persone: da una parte le persone con ma-lattia e le loro famiglie, dall’altra quelle dell’organizzazione sanitaria che cura. Oggi come amministratori della sanità percepiamo che è sempre più difficile far capire ai nostri giovani come un percorso lavorativo che abbia al proprio centro la cura dell’altro sia soddisfacente dal punto di vista professionale ed economico. Oltre che un dovere dal punto di vista etico. Ci devono essere soddisfazione economica e carriera, ma anche la libertà di fare il medico senza condizionamenti che non siano la malattia del paziente.