Vita

Legge 40. Procreazione artificiale: la vita si dona o si "possiede"?

Giuseppe Anzani martedì 17 settembre 2024

Nove anni dopo l’ultima sentenza in materia di figli in provetta, la Corte costituzionale è chiamata a occuparsi della legge 40: il Tribunale di Firenze ha infatti sollevato questione di legittimità costituzionale dell’articolo 5, che limita l’accesso alle coppie ed esclude le persone senza partner dell’altro sesso. Il caso è quello di Evita, 40enne torinese single, assistita dai legali dell’Associazione radicale Luca Coscioni, che chiede di poter avere un figlio da fecondazione artificiale anche se è sola. Una notizia che apre a una riflessione su quel che abbiamo compreso di una tecnica che snatura la procreazione. A proporcelo Giuseppe Anzani in questo riflessione che viene pubblicata sul numero 4/2024 di “Sì alla Vita”, bimestrale del Movimento per la Vita, diretto da Elisabetta Pittino.

La vita umana artificiale ha quasi mezzo secolo. Quando il 25 luglio 1978 venne alla luce Louise Brown, la prima bimba concepita in provetta, si gridò ad una sorta di miracolo. La scienza era riuscita a dare a genitori infertili la gioia di un figlio in braccio.

Da subito però la fecondazione in vitro con embryo-transfer avrebbe presentato all’umanità il conto dei suoi spinosi grovigli. Chi è l’embrione, vita fabbricata, “prodotto” del concepimento, una cosa da laboratorio, o una persona? E che senso ha la sessualità umana, l’intimo abbraccio vitale del maschio e della femmina, in
rapporto alla potenza creativa di ciò che chiamiamo amore? E poi che significa “figlio”, figlio di famiglia, figlio di chi, se gli ingredienti della vita assemblata si comprano alla banca dei gameti?

Queste tre domande ancora affaticano il pensiero del mondo, dopo che nel mondo i nati da provetta sono ormai fra gli otto e i dieci milioni. In Italia l’accesso alla procreazione medicalmente assistita è in forte aumento, nell’ultimo anno di cui si ha notizia statistica (2021) si contano più di 108mila cicli e i nati da provetta sono
stati il 4,2 per cento di tutti i nuovi nati. E da poco, dal gennaio di quest’anno 2024, la Pma è entrata esecutivamente tra i Livelli essenziali di assistenza del Servizio sanitario nazionale, accessibili in tutte le regioni di Italia. Un modo alterno di fare figli, nell’inverno demografico delle culle vuote? In realtà c’è anche un inverno di vita fabbricata e congelata nell’azoto liquido e abbandonata a incerto destino.
Aveva pensato di scongiurarlo una legge di vent’anni fa, la legge 40 del 2004, introdotta dopo un periodo anarchico di pratiche rimaste in memoria come far west della provetta selvaggia.

Il suo caposaldo era, ed è rimasto incrollabile, la soggettività dell’embrione umano, uno di noi. Dava accesso alla Pma alle coppie, coniugate o conviventi maggiorenni e infertili; da uno a tre embrioni per ciclo, non di più e da trasferire in utero tutti; no alla fecondazione eterologa, no al commercio, alla maternità surrogata; no alla selezione, clonazione, sperimentazione; no ad altre aberrazioni. Alcune di queste barriere sono cadute per via giudiziaria, con conseguenze a volte drammatiche. Il nucleo dell’impianto però è rimasto, e permane lo spessore bioetico dell’intero problema.

Oggi, di là degli aspetti giuridici di una tutela ferita, viene da chiederci quale significato antropologico assume questo modo riproduttivo impoverito della dimensione dell’intimità sessuale; slacciato da quel mistero d’amore che chiamiamo amplesso; fatto remoto alla “familiarità” della vita trasmessa in seno alla comunione di corpi e anime, del padre e della madre, se ridotto a frutto d’una reazione biologica fra ingredienti cellulari.

E di contro, quale povertà riserva al sesso la deprivazione del suo rapporto con la vita, ove dissociato dal dono di sé in dialogo aperto responsabilmente alla nuova vita. Anche questa è una deriva di povertà, una sterilizzata voluptas: perché la vita è più grande. La vita si dona, non si possiede.