«In Italia sta dilagando l’idea, tipica solo del mondo Occidentale per lo più di area anglofona, che esista
l’individuo isolato e fine a se stesso. Si vuole dimenticare che invece esiste la
persona come frutto di relazioni. È una visione privatistica che sta operando un rovesciamento di valori». Raffaella Iafrate, membro del Centro di Ateneo studi e ricerche sulla Famiglia, insegna Psicologia sociale alla Cattolica di Milano.
Quella che sembra una deriva globale, dunque, in realtà è un’impostazione circoscritta e minoritaria?Ci sono cinque o sei Paesi che dettano legge a livello culturale e purtroppo su temi così importanti per l’umanità intera ci si confronta solo con questi anziché con il mondo. Qualcuno sostiene che l’Italia è "rimasta indietro" rispetto a questo Occidente, perché a riforme come il "divorzio fai da te" arriviamo dopo altri, ma è davvero un restare "indietro"? Lo è per chi sostiene che l’uomo non è frutto di legami ma solo di autodeterminazione assoluta.
I testi che teorizzano tale autodeterminazione assoluta, senza alcun impegno verso la società, accusano la famiglia tradizionale di essere un’astrazione.La storia e la realtà ovviamente dimostrano il contrario. La vera astrazione è un individuo senza relazioni e basterebbero banalmente il nostro nome e cognome a dimostrarlo: il primo rivela la scelta fatta per noi da chi ci ha messi al mondo, il secondo la nostra appartenenza a qualcuno, a una stirpe. E la famiglia è il luogo in cui questi legami prendono vita. Provi a chiedere a qualcuno «chi sei?». Minimo le risponderà con il nome, ma anche si definisse come giornalista, medico, professore, indicherebbe comunque una sua relazione con il mondo. Siamo nel campo della relatività, non del relativismo.
Ha un senso, per due persone che non vogliono più vivere insieme, attendere anni prima di ottenere il divorzio?Oggi la coppia vive uno sbilanciamento di tipo affettivo: sto con lui o con lei solo finché soddisfa i miei bisogni affettivi, finché mi capisce, mi protegge, mi fa sentire importante, se no rompo il rapporto. Ma oltre al legame affettivo c’è anche una dimensione di responsabilità, ho assunto un impegno e lo rispetto, vado incontro alla diversità dell’altro, riesco a perdonarne il limite. Se tutto questo tramonta e vedo il rapporto solo nella sfera del mio bisogno da appagare, il patto non ha più nulla di ufficiale, perde la sua valenza sociale e diventa solo una decisione individualistica che prendo con l’altro, che posso rompere e ricostruire quando mi pare e piace, ogni volta che le mie aspettative sono state deluse. Al di là della mancanza episodica, c’è una forza etica che mi spinge ad andare oltre e a provare il rilancio del rapporto, ma posso farlo solo se ho il tempo necessario.
Il fatto che il divorzio diventi la cosa più facile e rapida del mondo che messaggio lancia ai giovani?Diciamo loro che non c’è nulla che, almeno nelle intenzioni, sia solido e così pérdono ciò che hanno di più prezioso. Il poter credere in legami stabili, infatti, è ciò che produce la crescita nel bambino, l’adolescente si permette il cambiamento perché c’è un mondo adulto che ha una solidità, se tutto è liquido non si permette più il lusso di "andare e venire", perde la direzione verso la quale orientare la sua crescita e resta perennemente adolescente. Che poi è ciò che si sta avverando.
Rubiamo loro anche il sogno più bello...Trasmettiamo una disillusione sul poter credere in qualcosa che è "per sempre". Tutti coloro che sono stati innamorati hanno sperimentato l’istanza del per sempre, un bisogno profondamente umano, anche in chi non crede, in questo la religione non c’entra. Che poi questa istanza non venga rispettata càpita, è la vita, ma se non è più neanche prefigurabile, ipotizzata, se viene vista come "contro natura", il messaggio è pericoloso: dice ai giovani «non crederci neanche più».