Disforia di genere. Gli psicanalisti: no ai bloccanti della pubertà
La Società italiana scrive al governo esprimendo riserve sull’uso di farmaci Il residente della Società psicoanalitica italiana (Spi), Sarantis Thanopulos ha scritto al presidente del Consiglio Giorgia Meloni a nome dell’esecutivo della Spi per esprimere «grande preoccupazione » e «forti perplessità » riguardo all’uso dei bloccanti della pubertà per i minori con disforia di genere; elenca controindicazioni a questo percorso e chiede di avviare una discussione scientifica in merito, cui si impegna a contribuire. È la prima società scientifica nel nostro Paese a sottolineare pubblicamente le criticità di questo trattamento, in Italia gratuito nelle condizioni individuate da Aifa (la nostra agenzia di farmacovigilanza).
Ma non è una novità nel panorama europeo. Le autorità sanitarie di Svezia e Finlandia da almeno un paio di anni hanno rivisto radicalmente il loro approccio alle transizioni di genere dei minori, con i bloccanti della pubertà sotto accusa, mentre in Gran Bretagna è stata appena chiusa la più grande clinica autorizzata a trattare la disforia di genere nei ragazzi, la Gids-Tavistock, e non solo: lo scorso 4 dicembre è terminata la consultazione pubblica su una proposta di nuove linee guida in merito, a cura del Sistema sanitario nazionale britannico, dopo che un caso giudiziario e un’autorevole inchiesta indipendente avevano aperto il vaso di Pandora delle transizioni fra i più giovani, rilevando gravi criticità nell’approccio con i bloccanti. Interrompere la pubertà fisiologica intorno ai 12 anni ai ragazzini con disforia di genere, cioè sofferenti perché si percepiscono di un genere diverso da quello di nascita: è questa la novità del cosiddetto “protocollo olandese”, che vede poi la somministrazione di ormoni di transizione ai 16 anni per chi persiste nel «sentirsi nel corpo sbagliato » ed eventualmente la chirurgia demolitiva-ricostruttiva dai 18 in poi. Media e social generalmente promuovono l’approccio, raccontandolo anche in tante serie televisive popolari, ma nella letteratura di settore trovano sempre più spazio pesanti critiche di specialisti impegnati nella cura di minori con queste problematiche. Gli studi su cui si basa il protocollo sono pochi e, per di più, contestati per la mancanza di rigore: notevoli ad esempio le pubblicazioni di Stephen B. Levine, del Department of Psychiatry della Case Western Reserve University, a Cleveland (Usa), che lavora in questo ambito con adulti e giovani dal 1973.
Di recente Levine ha letteralmente demolito il metodo con cui sono state condotte le ricerche fondanti il protocollo olandese: innovativo negli anni 90, quando il protocollo è stato introdotto, ma estraneo ai criteri della evidence- based medicine, adottati ai nostri giorni. Intanto cresce l’allarme per l’aumento esponenziale dei minori con disforia di genere e/o identità transgender, in Occidente: un fenomeno relativamente raro prima del 2015 ma attualmente con stime di 1 su 10-20, secondo l’American College Health Association, con una insorgenza improvvisa e rapida nell’adolescenza e che riguarda soprattutto le ragazze. Sono sempre più i detransitioners, coloro che dopo un percorso di transizione cercano di tornare al genere di nascita, purtroppo con scarse possibilità: la quasi totalità di chi blocca la pubertà poi prosegue con gli ormoni di transizione e spesso con la chirurgia, con modifiche irreversibili. Sono loro la drammatica dimostrazione vivente dei fallimenti di questo approccio che, in aggiunta, si basa su un consenso informato sulla cui robustezza, e quindi validità, crescono sempre più i dubbi. Ora anche in Italia.
Ecco il testo della lettera inviata alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni dal presidente della Spi, Sarantis Thanopulos
«L’ esecutivo della Società psicoanalitica italiana esprime grande preoccupazione per l’uso di farmaci finalizzato a produrre un arresto dello sviluppo puberale in ragazzi di entrambi i sessi a cui è stata diagnosticata una “disforia di genere”, cioè il non riconoscersi nel proprio sesso biologico. Vanno seriamente considerate le controindicazioni a questo trattamento:
- La diagnosi di “disforia di genere” in età prepuberale è basata sulle affermazioni dei soggetti interessati e non può essere oggetto di un’attenta valutazione finché lo sviluppo dell’identità sessuale è ancora in corso.
- Solo una parte minoritaria dei ragazzi che dichiarano di non identificarsi con il loro sesso conferma questa posizione nell’adolescenza, dopo la pubertà.
- Sospendere o prevenire lo sviluppo psicosessuale di un soggetto, in attesa della maturazione di una sua definizione identitaria stabile, è in contraddizione con il fatto che questo sviluppo è un fattore centrale del processo della definizione.
- Anche nei casi in cui la dichiarata “disforia di genere” in età prepuberale si confermi in adolescenza, l’arresto dello sviluppo non può sfociare in un corpo diverso, sotto il profilo sessuale, da quello originario. Lo sviluppo sessuale del proprio corpo anche quando contraddice un opposto orientamento interno consente un appagamento erotico che un corpo “bloccato” o manipolato non offre.
La sperimentazione in atto elude un’attenta valutazione scientifica accompagnata da un’approfondita riflessione sullo sviluppo psichico e suscita forti perplessità. È importante avviare sulla questione dei ragazzi con problematiche di genere una rigorosa discussione scientifica a cui la Società Psicoanalitica Italiana darà il suo contributo volentieri».