Jennifer Lahl ha passato 25 anni in un ospedale. Dalla corsia, come infermiera, o dal suo ufficio, dove gestiva lo staff del nosocomio, ha visto da vicino la vulnerabilità di donne e bambini al momento della gravidanza, della nascita e della malattia. Difendere i loro diritti è diventato il fulcro della sua carriera. E quando il suo Stato, la California, ha cominciato a riconoscere i contratti di maternità surrogata, Lahl è passata all’azione. Negli ultimi dieci anni ha fondato il Center for Bioethics and Culture Network. Ha prodotto tre documentari:
Eggsploitation, sulla compravendita di ovociti,
Anonymous Father’s Day, che esplora le storie dei figli di donatori di sperma, e
Breeders, che si addentra nel mercato degli uteri in affitto. In giorni come questi Lahl può trovarsi a parlare a Austin, in Texas, a Roma (sabato, alla manifestazione per la famiglia al Circo Massimo) e a Parigi, martedì, alle assise per l’abolizione universale della maternità surrogata.
Dopo dieci anni, qual è il bilancio del suo attivismo?Vedo risultati a livello legislativo statale. Ci sono governatori, come Chris Christie in New Jersey e Bobby Jindal in Louisiana, che pongono ripetuti veti ai tentativi di legalizzare la maternità surrogata. E Stati dove non è mai emersa nessuna iniziativa per promuovere la maternità conto terzi. Vedo anche una maggiore disponibilità dei media ad affrontare storie di gravidanze surrogate finite in tribunale oppure tragicamente come quella di Brooke Lee Brown, morta a ottobre mentre aspettava due gemelli commissionati da una coppia spagnola.
Quali reazioni raccoglie dopo le proiezioni dei suoi documentari?Stupore. La gente è abituata a vedere la superficie del fenomeno, quella promossa dalle cliniche per la fertilità. Non pensano ai rischi per la madre o per il bambino, a quanto sia dannoso separare un neonato dall’unica persona che ha conosciuto per nove mesi. O a quanto sia traumatico per i figli precedenti della madre surrogata veder cedere l’ultimo nato per denaro.
A maggio lei ha lanciato la campagna «Stop Surrogacy Now». Qual è il suo obiettivo?Allargare il fronte di chi vuole proteggere donne e bambini. Abbiamo raccolto l’adesione di oltre cento Ong e gruppi diversi, religiosi e non, etero e omosessuali, perché sia chiaro che la battaglia è solo contro lo mercificazione della riproduzione. Sono convinta che solo la collaborazione trasversale possa portare al successo della campagna, anche se espone a controversie.
Di che tipo?A volte mi trovo immischiata in dibattiti sull’omosessualità o sull’aborto, o accusata di bigotteria o omofobia. Ma rimango concentrata sul mio obiettivo, che è quello di fermare l’affitto di uteri e la donazione o la vendita di gameti.
È vero che la comunità gay maschile è una delle più forti sostenitrici della maternità surrogata negli Stati Uniti?Ho collaborato con molti uomini gay, ma non sono tanto ingenua da pensare che non ci sia una forte componente della loro comunità che spinge per la liberalizzazione della gravidanza conto terzi. Negli Stati Uniti meno di 24 ore dopo la legalizzazione del matrimonio omosessuale è comparso un intervento di un gruppo gay sul
Los Angeles Times che sosteneva che bisognava legalizzare la maternità surrogata. Nello Stato di New York la pressione per la legalizzazione viene tutta da associazioni gay.
Qual è il modus operandi del suo gruppo?Raccogliere i fatti e farli circolare nelle Assemblee statali e nelle associazioni professionali. Prepariamo rapporti che illustrano attraverso dati scientifici e statistiche il rischio medico della gravidanza surrogata e l’importanza del legame madre-figlio. Vogliamo mostrare quanto indifferente sia l’industria della riproduzione a tutto quello che non è lucrativo. Scrivo spesso di contratti per l’affitto di uteri: descrivono una condizione di schiavitù. Precisano tutto quello che la donna può e non può fare, mangiare, dire. Sottopongono lei e la sua famiglia a continui controlli fisici e mentali. L’unico test per i committenti è essere in grado di pagare l’agenzia.
Nota sensibilità diverse sulle due sponde dell’Atlantico?No, una volta informati, gli americani rispondono in modo forte. La differenza è che qui da noi la mentalità del mercato a tutti i costi ha impedito il passaggio di moratorie a livello nazionale. L’industria della riproduzione inoltre qui ha maggiori risorse. Io insisto sul punto di vista scientifico. Dirigo un’organizzazione specializzata nella biotecnologia, e oggi il settore biotecnologico che gode di maggiori investimenti è quello riproduttivo.
«Stop Surrogacy Now» ha raccolto adesioni in Europa: è un primo esperimento di un’alleanza globale contro l’utero in affitto? È possibile. Non vedo l’ora di arrivare a Roma e a Parigi e di vedere di persona che cosa possiamo fare insieme. È necessario, perché anche se in buona parte d’Europa la gravidanza conto terzi è illegale ci sono coppie europee che affittano uteri negli Usa. Per questo abbiamo bisogno di una forte dichiarazione globale. L’Onu è un importante luogo dove ottenerla, anche se non sarà sufficiente. Ma è gratificante vedere i passi avanti e poter finalmente sperare in un bando internazionale della maternità surrogata.