Vita

Fine vita. Vescovi (Comitato bioetica): perché non esiste un “diritto di uccidersi”

Enrico Negrotti martedì 2 luglio 2024

Angelo Vescovi, presidente del Comitato nazionale per la bioetica

«La Corte costituzionale ha inteso delimitare un perimetro entro il quale si potesse dichiarare non punibile l’aiuto al suicidio medicalmente assistito (secondo l’articolo 580 del Codice penale), non certo di aprire incondizionatamente la possibilità di togliersi la vita. In questa direzione va anche la recente sentenza della Corte europea per i diritti dell’uomo (Cedu), che ha dato conforto all’opinione della maggioranza dei componenti del Comitato nazionale per la bioetica (Cnb) che hanno votato la risposta al Comitato etico territoriale (Cet) dell’Umbria». Angelo Luigi Vescovi, presidente del Cnb e docente di Biologia alla Link Campus University di Roma, ha coordinato i lavori: «Ci è sembrato più corretto fornire criteri che identifichino i trattamenti di sostegno vitale (Tsv) che non un elenco degli stessi».
Quale impostazione ha seguito il Cnb per rispondere al quesito del Cet umbro?
Premetto che il Cnb rispondeva a un quesito preciso. E si tratta di una domanda che nasce nell’ambito dell’interpretazione di una sentenza della Corte Costituzionale (242/2019) che ha definito la non punibilità di chi «agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente». Aggiungendo che al paziente deve essere stata offerta la possibilità di accedere a cure palliative. Significa che non potevamo che muoverci all’interno di questa impostazione. Ma la difficoltà era un’altra.
Quale?
Il fatto che mancano definizioni condivise dal punto di vista sia medico sia giuridico, di che cosa siano i Tsv. Di qui la nostra decisione di non produrre un elenco, ma di fornire criteri per individuarli, nel concreto della pratica clinica, caso per caso, dove possono emergere sfumature diverse.
Quali sono questi criteri?
Ci è sembrato che si possano individuare nei concetti di finalità, intensità e sospensione. Cioè un trattamento è di sostegno vitale se ha la “finalità” di rispondere a condizioni non estemporanee che mettono a rischio la vita in un arco di tempo limitato, sostituendo funzioni vitali non più sostenibili dall’organismo. Se ha una “intensità” che dipende dal fatto di utilizzare tecnologie complesse e avanzate e procedure specialistiche, che possono richiedere una forte invasività e continuità nel tempo. Infine se la “sospensione” di questi trattamenti di sostegno vitale provoca conseguenze fatali immediate o comunque rapide, in relazione alle condizioni del paziente.
Può sintetizzare le posizioni della minoranza che pure ha approvato il documento?
Si riferiscono alla visione che un “sostegno” non coincide necessariamente con una completa “sostituzione” di funzione vitale e all’includere alimentazione artificiale e idratazione tra i sostegni vitali. La maggioranza crede che in alcune situazioni non siano tali, ma solo una funzione aggiuntiva per chi non è in grado di provvedervi autonomamente, senza essere correlato allo stato di salute. È chiaro che vi sono alcune zone d’ombra.
La recente sentenza della Corte europea dei diritti umani è stata di aiuto?
In realtà è arrivata a valle del lavoro, quando il documento era quasi completato. Però ci ha confortato perché supporta la posizione che abbiamo approvato. Non dimentichiamo che tutto il lavoro nasce nell’ambito del dettato della sentenza della Consulta e va interpretato in quel contesto.