Eutanasia. In Olanda il docufilm tv che mostra l’angoscia e la resa al dolore
La televisione olandese Npo2 ha mandato in onda quattro puntate di un documentario dell’emittente Bnnvara sull’eutanasia di pazienti affetti da patologie psichiatriche, fra cui una ragazza di 26 anni, depressa dall’età di 19 anni, e una donna di 56. Il titolo è Een goede dood, “Una buona morte”.
Un documentario forte (sconsigliato alla visione dei ragazzi sotto i 12 anni) sull’applicazione di una legge nata con l’intento di regolarizzare la pratica, entrata in vigore nel 2002. L’ideatrice e regista è la giornalista Elena Lindemans, la cui madre, depressa, ricorse al suicidio per farla finita. Il principio che diede origine a questa legge è che l’eutanasia può essere applicata in caso di sofferenza fisica o mentale insopportabile, malattia incurabile, senza alcuna prospettiva futura, con una richiesta firmata e spontanea del paziente in stato di intendere e volere, ben ponderata e permanente. Il compito di prenderla in considerazione, approvarla e in seguito metterla in atto è affidato solo al medico di famiglia, o allo psichiatra che ha in cura il paziente, dopo un consulto con un secondo collega, chiamato a giudicare se la sua vita è irrimediabilmente compromessa dalla patologia che lo affligge. Entrambi possono rivolgersi anche a uno specialista indipendente dell’associazione Scen (nata su iniziativa della federazione dei medici Knmg) per un sostegno psicologico o aiuto a sciogliere ogni “ragionevole dubbio.” Un percorso che può durare anni. Fra il medico e il suo assistito nasce un rapporto di conoscenza più profonda, per arrivare insieme alla conclusione finale.
Questa spiegazione è rilevante al fine di capire meglio le storie raccontate nel documentario. La giustizia interviene solo a morte avvenuta, attraverso la Commissione regionale Rte che, entro sei settimane dalla comunicazione del decesso, sia da parte del medico legale che sulla base di una dettagliata documentazione del medico che l’ha provocato, valuta se la procedura è stata portata a termine «in modo accurato» rispettando le regole imposte dalla legge. In caso contrario, potrebbe iniziare un procedimento penale ( in realtà i casi giudicati “sospetti” non sono stati mai più di 3- 5 l’anno). La prima puntata del documentario si apre proprio con la preparazione all’eutanasia di Marte, un’intelligente, mite giovane di 26 anni originaria di Groningen, due trecce che le incorniciano il bel viso da ragazzina. Quando parla sorride sempre: ma nei suoi occhi c’è un’infinita tristezza. Marte non riesce più a convivere con una forte depressione che l’attanaglia da 7 anni. Allora si rivolge al Centro per l’eutanasia Expertise, come molti pazienti che non vogliono attendere più (o troppo) per trovare un medico che accolga la loro domanda. Dopo un certo lasso di tempo e di colloqui con una psichiatra, che si chiama Kit, quest’ultima acconsente che le venga praticata l’eutanasia; ne discutono ancora una volta nella cucina della casa in cui abita con i genitori, alla presenza di padre, madre, sorella e nonna. L’atmosfera è apparentemente serena. Marte conferma che vuole andarsene per sempre, suo padre dice che «ultimamente è talmente depressa che quando si corica, il mattino seguente teme di non trovarla più viva». Insieme si recano in un bosco per scegliere il posto dove saranno sparse le sue ceneri. Tutto sembra così “normale” che fa persino male: al pensiero che entro pochi giorni quella dolce ragazza non ci sarà più si viene assaliti da un profondo senso di sconforto. Al rientro a casa il padre si lascia andare a un’esclamazione difficile da comprendere: «Che bel giorno abbiamo avuto oggi!». La rassegnazione è diventata quindi accettazione, anche da parte della famiglia.
Nella puntata seguente Marte, sempre accompagnata dai familiari, si reca alla clinica universitaria della sua città per informarsi sulla donazione di organi, che i medici giudicano importante in quanto la ragazza è fisicamente sana. Le elencano quali potrebbero essere utili, sentendosi a sua volta – e una volta tanto – utile a qualcosa.
A casa inizia il “trasloco”, come lo definisce lei. Marte fa una selezione delle cose che desidera donare, per esempio alla sorella, che sceglie piccoli oggetti, libri, pupazzi. Poi guarda con la madre un video di quando lei era bambina. Sua mamma non piange, parla poco, se non per affermare che «le è vicina nella sua decisione” anche se naturalmente trova la situazione «molto difficile».
La terza puntata termina purtroppo con l’eutanasia di Marte. Ed è una delle cose più difficili da vedere sino in fondo. Anche perché ci si è affezionati a lei, nella vana speranza (pur sapendo che non sarà così) che scelga nuovamente la vita, che quel malessere esistenziale l’abbandoni, come per miracolo. Ma gli uomini non sanno fare miracoli. Marte passa l’ultima notte in un albergo, con la sorella. Dall’ampia vetrata della stanza, illuminata dal sole, può vedere l’ospedale, dove è pronto l’elenco di sette pazienti già in attesa dei suoi organi.
Arriva la psichiatra, le porta dei fiori. Quella mattina aveva avuto un’accesa discussione con i medici della clinica universitaria, i quali avevano ribadito che poteva praticarsi l’eutanasia senza il loro intervento, mentre lei aveva chiesto che almeno inserissero loro l’ago con la cannula necessario per la somministrazione endovenosa dei farmaci. Per questo motivo chiama un’ambulanza per affidare il compito a un loro infermiere.
Marte è sempre triste ma sorridente, fa tanta tenerezza. Poi si avviano a piedi verso l’ospedale. Là avviene tutto molto in fretta, in una camera dove ci sono solo lei e la psichiatra. Il personale sanitario e paramedico resta fuori, in attesa di intervenire per gli espianti degli organi. C’è poco spazio per le emozioni. La psichiatra le spiega come procederà, quali farmaci la porteranno ad «addormentarsi subito». Cita il “rocuronium” (rilassante muscolare che viene iniettato solo a coma avvenuto e constatato). Le domanda se è pronta a lasciare questo mondo. Aggiunge che le dispiace di separarsi da lei. Marte le risponde con un filo di voce, colma di pianto: «Sono pronta, vada pure avanti».
Poco dopo la dottoressa esce dalla stanza per seguire su un monitor l’andamento del processo di morte: la pressione sanguigna scende rapidamente. Quando la linea blu diventa piatta debbono trascorrere ancora 10-15 minuti, per la certezza dell’avvenuto trapasso. Posa il suo telefonino accanto al monitor e da lì parte il conteggio: 10, 9...5 minuti. Zero. Marte non c’è più.
Solo assistendo a questa scena si comprende quanto una morte indotta sia ben altro che una morte naturale. Cala il gelo, in un silenzio pietrificato interrotto solo dalla voce della psichiatra che dice: klaar, finito. Non una parola in più. Un’assistente chiama subito, come prevede la legge, il medico legale del Comune per informarlo che nel loro ospedale è stata appena attuata un’eutanasia. Da quel momento parte il procedimento di controllo per valutare che tutto sia stato eseguito a norma di legge. La psichiatra Kit torna a casa, in bicicletta, come per un’altra precedente eutanasia di una sua paziente, questa volta accaduta nell’abitazione della donna, terminata la quale si era seduta sul divano, visibilmente affaticata, aveva mangiato un panino ed esclamato: «Che compito difficile! E pensare che tante persone dopo questo filmato mi considereranno un’assassina!».
La signora in questione, Pythia, simpatica, ben curata, attiva, aveva organizzato la sua dipartita punto per punto. Si era persino preoccupata di disdire l’abbonamento al suo quotidiano preferito, con una telefonata in viva voce in cui comunicava che il motivo era un lutto in famiglia. Dall’altro capo del telefono si sente qualcuno porgerle le condoglianze; lei ringrazia e sorride all’idea di aver ricevuto le condoglianze da viva.
Nel documentario vengono mostrati altri casi simili fra cui anche due suicidi assistiti ( con una lenta, penosa agonia). Oltre alla proposta di eutanasia a Marij, di 88 anni, affetta da Alzheimer, la quale in passato aveva firmato il documento necessario in presenza del suo medico di famiglia, Ester, nell’eventualità che si fosse ammalata. Passati alcuni anni viene colpita proprio dalla malattia neurodegenerativa. La dottoressa va a trovarla a casa sua e le chiede, in presenza del figlio, se vuole che venga rispettato subito il suo volere sottoscritto all’epoca. Lei risponde di no. Ester insiste, ricordandole l’atto firmato coscientemente. Marij ribadisce che «in quei giorni sta bene; è a casa sua, (peraltro una bella dimora, con giardino, ndr), si sente accudita, una domestica fa le pulizie, non manca niente». A questo punto la dottoressa pronuncia una frase che lascia perplessi: «In realtà deve decidere alla svelta, altrimenti sarà troppo tardi in quanto non sarà più in grado di intendere e volere». Marij conferma il suo rifiuto di morire «adesso». Allora la dottoressa si rivolge a uno psichiatra consulente di Expertise il quale precisa che, «contrariamente a quello che molti pensano, la legge non sancisce un diritto del paziente di morire quando vuole bensì la possibilità, e non un obbligo, per il suo medico curante di aiutarlo quando ci sono i presupposti previsti». Usa addirittura la parola olandese “gunst”, che in italiano significa “favore”: in poche parole, è un piacere che il medico fa al suo assistito.
Termina suggerendole di non insistere se ha cambiato idea, dopo di che, nel momento in cui la sua paziente verrà ricoverata in casa di cura e non sarà più lucida, potrà ricorrere alla pratica eutanasica, «ma soltanto nel caso in cui si renderà conto, dal suo atteggiamento, che sta soffrendo molto, la qual cosa è comunque assai complicata da valutare in quello stadio della malattia».
Un’altra signora, oma Wil (“oma” significa nonna), allettata, in evidente stato di deperimento psico-fisico, riceve la visita della psichiatra pronta ad accogliere la sua richiesta di eutanasia. Addirittura le fa scegliere fra eutanasia e suicidio assistito, oppure una dose di morfina che la porterà a una morte sicura ma meno veloce. Aggiunge però che è in partenza per le vacanze per cui dovrà attendere il suo rientro. Il giorno seguente, quando la figlia va a trovarla, esclama che «tutto sommato le piacerebbe vivere più a lungo, se i suoi parenti andassero a farle visita più spesso». Poi muore di morte naturale.
Nell’ultima puntata si assiste all’eutanasia di Yvonne, una donna di 56 anni, con due figli ancora giovani. Un’infanzia tormentata in preda alla depressione, era stata abusata e aveva sofferto di problemi psichiatrici. Yvonne piange, si dispera, scongiura la sua psichiatra, Nynke, di aiutarla a morire. Lei acconsente, nonostante si veda che lo fa a malincuore. Quindi, come previsto, si rivolge a un collega di Expertise, all’inizio con un appuntamento online. Lui le dice subito quanto «apprezzi che voglia aiutare la sua paziente, ci vuole molto coraggio, si tratta di un intervento radicale. A cui si aggiunge la difficoltà di giudicare quando una sofferenza non sia realmente più accettabile». Lei risponde di rendersi conto che «si tratta di uccidere un essere umano, ma quella donna si suiciderebbe se non intervenisse». Per questo considera l’eutanasia «quasi una specie di behandeling», parola olandese che in italiano significa “terapia”. Più avanti domanda d un altro medico del centro Expertise di affiancarla al momento opportuno perché «è la prima volta» e si sente insicura: ha paura di sbagliare le dosi, di non farcela a portare a termine il compito. Prova tanta pietà per quella donna. Lui le promette di starle accanto il giorno stabilito, nel caso subentrasse qualche problema e la morte non avvenisse nel giro di mezz’ora. La telecamera riprende la psichiatra che si prepara all’intervento decisivo, dopo aver procurato i farmaci necessari sistemati sul tavolo del suo appartamento; ripassando a memoria che tipo di siringa, dose di sonnifero, analgesico, farmaco letale deve usare.
Nel frattempo Yvonne, che precedentemente aveva chiesto di morire insieme al suo amato cane, organizza una festa con la famiglia. All’inizio sembrano tutti allegri. Durante la cena comunica che l’eutanasia le verrà praticata il giorno seguente. L’atmosfera cambia: in questo modo dà il via al suo “funerale.” Un funerale in vita anomalo: in cui è lei stessa a leggere commossa una sua poesia, una lettera di addio. I figli piangono. Lei li consola. Si fa scattare una foto con loro, da mettere sulla sua tomba. Tutto questo infonde un senso di autentica angoscia.
La mattina successiva, all’ora fissata, arriva la psichiatra Nynke. Si vede che è nervosa, l’espressione tesa, afflitta. Yvonne le fa un dono: un quadro con il suo ritratto che ha disegnato, accompagnato da una cartolina in cui la ringrazia per il supporto. Si abbracciano. Anche lei riceve un regalo, da suo figlio, il più giovane, che stringe forte a sé.
È arrivata la fine. Nynke esce dalla camera dove ha portato alla morte la sua paziente e dice, con un sorriso mesto, rivolgendosi ai figli: «Ragazzi, vostra madre se ne è andata». Il programma termina: The end. Proprio quello che si era fatta tatuare una giovane donna di cui abbiamo scritto di recente, Zoraya ter Beek, 29 anni, pure lei affetta da una grave forma di depressione.
Zoraya aveva lottato a lungo affinché i medici le riconoscessero di poter morire per eutanasia, avvenuta il 22 maggio scorso. Sulle braccia aveva diversi tatuaggi che si riferivano alla sua storia di ricoveri e tentati suicidi: un racconto simbolico, come in un libro. The end è stata l’ultima incisione che ha voluto sulla sua pelle.
È difficile commentare la scelta di queste persone sopraffatte dal dolore. Verso di loro si può solo provare un sentimento che ci accomuna tutti, cattolici e laici: quello della compassione, dal latino cum (insieme) patior (soffro). Che però non significa condividere la loro rassegnazione, la rinuncia alla lotta, neanche da parte di chi spezza la loro esistenza “per pietà”, piuttosto che convincerli a concedersi ancora un po’ di tempo, attimi preziosi di quel mistero che si chiama vita.