Mai sino a oggi il nostro ordinamento ha tollerato che a una persona incosciente siano sospese le cure in base alle dichiarazioni di chi ne ha la tutela. Eppure si comincia a registrare qualche decisione giudiziale incline ad accogliere richieste di nomina di amministratore di sostegno per renderlo garante della "libertà di scelta" dei cittadini e, in particolare, delle loro volontà di fine vita. Si tratta di una soluzione a dir poco creativa. È infatti pacifico tra i giuristi più avveduti che essendo l’istituto dell’amministrazione di sostegno una misura di protezione delle persone prive in tutto o in parte di autonomia, con la quale si prevede l’assistenza a chi non può provvedere ai propri interessi, essa non possa essere utilizzata per scelte che non attengono a beni patrimoniali. Nel linguaggio del legislatore, infatti, "amministrazione" significa esercizio di "affari", cioè interessi economici. Diversamente, se tutelare gli incapaci implicasse anche la disponibilità dei loro beni vitali – quali la salute e la vita stessa – si finirebbe per piegare l’amministrazione di sostegno all’obiettivo di rendere la vita e la salute delle persone quali beni patrimoniali. Dalle cronache di questi giorni, invece, emerge che ci sia qualche giudice tutelare il quale ritiene che l’amministratore di sostegno possa autorizzare scelte di rifiuto di cura. È piuttosto evidente che questo tipo di decisioni sia figlia dello stesso humus culturale del pur solitario orientamento giurisprudenziale relativo alla vicenda Englaro, dove si è ritenuto che al centro delle opzioni ordinamentali non vi sia più la persona ma la sua volontà e la sua presunta libertà di scelta.E’ in fondo questo il primo e fondamentale anello di una catena di errori interpretativi: si travisa il principio di libertà di scelta che vige per gli interventi terapeutici, e che è tuttavia da collegare al diritto all’integrità fisica, alla libertà personale e alla qualificazione giuridica della vita quale bene giuridico in sé. Si tratta di una libertà fondamentale che può essere esercitata, ma è impossibile cederla o rinunziarvi. Per questo, il rifiuto di terapia non può che essere espresso personalmente e in piena autonomia. La giurisprudenza – salvo gli sporadici ma insidiosi casi segnalati – ritiene che ai fini di una scelta che porta al rifiuto di cura occorra un’affermazione puntuale nella situazione specifica di malattia o ricovero. La validità di un dissenso preventivo a un trattamento sanitario è così esclusa in assenza della doverosa, completa, analitica informazione sul trattamento stesso e, dunque, la devoluzione di tale decisione ad un soggetto terzo – tutore o amministratore di sostegno che sia – è ritenuta impraticabile. Il diverso ragionamento che si affaccia ora con decisioni che di fatto aprono a una forma giudiziale di testamento biologico discende dalla creazione giurisprudenziale del "diritto di autodeterminazione" che ha finito per snaturare proprio il principio dal quale si fa derivare – la libertà di rifiuto del trattamento terapeutico – assegnando alla volontà dell’individuo il potere di disporre modi e collaborazioni circa l’esito della propria vita. Con la conseguenza che la libertà di rifiuto del trattamento terapeutico slitta nel rifiuto di assistenza umanitaria. Si tenta cioè di sostituire la libertà della persona con la volontà dell’individuo per dare fondamento teoretico dei diritti di libertà, con il risultato di renderli negoziabili, assegnando così al medico il ruolo di esecutore della volontà del paziente e all’amministratore di sostegno il compito di gestore del "diritto all’autodeterminazione" del suo assistito. Così si finisce però col ripudiare persino le pur equivoche fondamenta volontaristiche del "diritto all’autodeterminazione" per trasformarlo in una sorta di "diritto di eterodeterminazione": il cittadino in stato di incoscienza, con la sua volontà presunta o derivata che sia, è valutato in relazione alla percezione altrui e non per il valore in sé, giuridicamente proprio della persona-soggetto di diritto. Tale approdo rappresenta in realtà la rimozione di un macigno giuridico-costituzionale che ha trovato sintesi nel rapporto tra valore della persona e diritti di libertà. È la lezione lapiriana dell’articolo 2 della Costituzione, dove la Repubblica «si inchina» ai diritti inviolabili della persona, intesa come «soggetto relazionale», diritti che preesistono allo Stato e alle scelte ordinamentali. Ora la rottura del legame tra persona e libertà, con la possibilità di una circolazione autonoma di quest’ultima, trasforma la libertà di scelta in pretesa giuridica che reclama l’attuazione da parte delle amministrazioni o della comunità. Il richiamo alla libertà di scelta, così radicalizzata anche nei confronti del medico curante o dell’amministratore di sostegno, confligge con i valori di fondo del nostro sistema che distingue con saggezza ed equilibrio tra scelte del singolo e scelte dell’ordinamento. Emblematico è il paradigma della nostra Carta, che all’articolo 32 tutela la salute sia come fondamentale diritto dell’individuo sia come interesse della collettività: quest’ultimo richiamo è stato rimosso dal dibattito sulle dichiarazioni anticipate di trattamento.È la conseguenza di quel malinteso ruolo del diritto, declassato da elemento fondativo "forte" a strumento "debole" di ratifica della volontà autodeterministica dell’individuo che porta a ritenere che il giudizio sulle scelte del fine vita sia interamente individuale.