Emilia R. Suicidio assistito: il protocollo regionale è scelta politica, non "diritto"
Nella sua replica alla Nota dei Vescovi dell’Emilia-Romagna il presidente della Regione Stefano Bonaccini sostiene in sostanza che la Chiesa si disinteressa della sentenza della Corte costituzionale e parla per astrazioni, mentre a occuparsi di diritto e diritti sarebbe solo la giunta regionale; e che la Regione deve farsi carico di quel che il Parlamento non fa. Ora, lontani da toni e intenti polemici, solo per amore di verità e di limpidezza dei concetti, va precisato che il provvedimento della Giunta non attua ma smentisce e disattende quanto affermato dalla Corte.
Per il presidente Bonaccini la giunta sarebbe intervenuta per assicurare ai pazienti un diritto previsto da una sentenza. Ma la sentenza della Corte non prevede alcun diritto del paziente al suicidio assistito, che resta di per sé oggetto di un reato (art. 580 Codice penale) a tutela dei soggetti deboli, salvo che in una circoscritta ipotesi individuata dai giudici, i quali hanno peraltro riaffermato che il nostro ordinamento tutela il diritto alla vita, non un preteso diritto a morire. Il solo diritto che la Corte ha ribadito è quello all’accesso – che deve essere questo sì garantito come previsto dalla legge – alle terapie del dolore e alle cure palliative, che anche nella Regione Emilia-Romagna, come asserito da molti medici, sono invece ben lontane dall’essere assicurate.
Su questo punto la Corte ha insistito per evitare che la ristretta area di non punibilità del suicidio assistito diventi un alibi per il servizio sanitario a non investire su queste cure fondamentali. Anche per i Vescovi questa è la vera priorità: alleviare il dolore e la sofferenza dei pazienti, di tutti i pazienti, perché anche la fine della vita possa essere vissuta in modo conforme alla dignità della persona umana, non favorire il loro decesso.
In sostanza, quella di tradurre l'ipotesi circoscritta del suicidio assistito, reso non punibile dalla Corte in ristretti casi, in “suicidio medicalmente assistito”, ovvero in un nuovo protocollo sanitario volto ad agevolare non la cura ma la morte del paziente, non è affatto un atto dovuto da parte della Regione ma una sua scelta tutta politica (e ideologica) volta a recepire – peraltro senza alcuna discussione democratica, e quindi imponendola per decreto – l’assai discussa e controversa proposta di legge Coscioni, che prevede un percorso per l’eutanasia consensuale in ambito ospedaliero.
Proprio la decisione di procedere in materia con un mero atto amministrativo è poi un’ulteriore ed evidente violazione di quanto disposto dalla Corte, che ha esplicitamente affidato questo compito (solo) al legislatore, vertendosi in materia di diritti fondamentali e di tutela di soggetti vulnerabili, per di più in materia presidiata da norme penali e pertanto soggetta a riserva assoluta di legge. Come già rilevato, non esiste un preteso diritto al suicidio assistito cui corrisponda un obbligo di facere da parte di terzi, né tanto meno un preteso diritto al “suicidio medicalmente assistito” per il quale la Regione debba intervenire ad assicurarne l’esercizio in attesa dell’intervento del legislatore: questo è un approccio, oltre che infondato giuridicamente, quasi offensivo e mortificante per le sofferenze dei pazienti e dei loro familiari, che banalizza la questione del fine-vita riducendolo a una mera procedura burocratica.
Quanto al principio di legalità, richiamato dalla giunta regionale a sostegno del suo provvedimento, va precisato che quest’ultimo risulta in contrasto sia con i doveri deontologici del medico, tutelati dalla legge (art. 1, co. 6, l. n. 219/2017), ovvero «la tutela della vita, della salute fisica e psichica dell’uomo e il sollievo dalla sofferenza nel rispetto della libertà e della dignità della persona umana» (art. 2, Codice deontologia medica), sia con le funzioni del Servizio sanitario nazionale, cui ancora la legge assegna il compito di provvedere alla «promozione, al mantenimento ed al recupero della salute fisica e psichica di tutta la popolazione» (art. 1, co. 3, l. n. 833/1978), non certo di agevolare il suicidio del paziente.