Embrioni distrutti. Perché la sentenza in Alabama rispetta il diritto (anche italiano)
La sentenza della Corte suprema dell’Alabama, che ha applicato alla morte di embrioni congelati – finiti distrutti per colpa – lo stesso trattamento risarcitorio degli embrioni nel grembo, ha suscitato reazioni accese e persino scomposte, come per una specie di controrivoluzione. Le cose non stanno così: dal lato giuridico sono più semplici, dal lato culturale sono più complesse.
La storia è questa: tre coppie infertili si sottopongono alla procreazione medicalmente assistita per avere un figlio. La fecondazione in vitro riesce, si ottengono gli embrioni desiderati, e temporaneamente si congelano in attesa di trasferirli in utero. Ma un giorno, nella clinica dove gli embrioni sono conservati un paziente si introduce nella stanza di congelamento per una porta incustodita, maneggia le provette, il gelo del freezer dove sono contenute gli paralizza la mano, le provette cadono a terra, e gli embrioni vanno distrutti. Giudicate voi la situazione straziante dei genitori; giudicate se possono chieder conto all’ospedale del torto subito, della perdita, del dolore. La Corte suprema dell’Alabama ha detto di sì. Dov’è lo scandalo?
In Italia una sentenza del Tribunale di Milano nel maggio 2013 aveva affrontato una storia simile. In un ospedale milanese, dove una coppia aveva ottenuto in vitro due embrioni, provvisoriamente congelati, proprio quando tutto era pronto per eseguire l’indomani il trapianto in utero disgrazia volle che nella notte mancasse la corrente, senza alcun dispositivo di emergenza e di sicurezza. Gli embrioni morirono. Ai genitori disperati il tribunale liquidò un risarcimento di circa 60mila euro; non certo il prezzo della vita, ma il simbolico ristoro del dolore. La dottrina giuridica scrisse un commento importante: e disse fra l’altro che «non è tanto diverso, a ben vedere, dai casi di perdita traumatica del feto, di aborto causato da incidente stradale, dalle situazioni di sterilità indotta» (Cendon).
In modo singolare, è l’identica prospettiva che si è presentata alla Corte suprema dell’Alabama. Là c’è una legge che tratta «la morte ingiusta di un minore» (Wrongful death of a minor Act) come fonte di responsabilità in caso di colpa; e dove “minor” è ogni essere umano che non ha raggiunto l’età adulta, a partire dal primo istante della sua vita. Questo concetto era così chiaro, così pacifico, così indubitabile nella causa che nessuno degli accusati lo metteva in discussione: la norma si applicava agli esseri umani fin dallo stadio del grembo (ma del resto anche da noi la morte per colpa provocata a un bimbo nel grembo è un reato punito dall’articolo 593 bis del nostro Codice penale). Si difendevano invece dicendo che se l’embrione si trovava in provetta piuttosto che nel grembo la sua morte sfuggiva alla legge. Il nocciolo della sentenza sta tutto nella soluzione di questo sofisma, sta nelle prime dieci righe, che affermano che la legge si applica alla vita di tutti i bambini non ancora nati, indipendentemente dal luogo in cui si trovano.
Davvero ci vuole un genio per affermare questo, o basta La Palice? Alcuni media si sono strappate le vesti perchè la Corte americana avrebbe trattato gli embrioni come «bambini», chiamandoli proprio così. Ma questo stupore filologico ignora la filologia giuridica. Anzi, quella comune. Anche nel linguaggio comune una donna incinta “aspetta un bambino”; ed egualmente può dire “aspetta un figlio”. In inglese child è bambino e child è figlio. In francese enfant è bambino e enfant è figlio. E si è figli da subito, da prima di nascere. Un testo giuridico grande come la Dichiarazione universale dei Diritti del Bambino dice nel Preambolo che il bambino ha diritto a una speciale protezione «sia prima che dopo la nascita». E dunque questa nuova sentenza d’oltre oceano non aggiunge nulla alla disarmante semplicità del valore che la vita d’un nuovo essere umano, d’un nuovo figlio, di un nuovo “bambino” ha in sé stessa, e della cura che merita. E del torto che si produce se muore di morte ingiusta (wrongful death) per colpa altrui.
Chi contrasta questi concetti elementari di giustizia sulla vita umana, o anche chi semplicemente ne è turbato, forse sta smarrendo il senso relazionale umano del generare una nuova vita, il mistero della sua improgrammabile novità e alterità. Una sconfitta dell’anima che arriva a discorrere di grumi di cellule come fossero cose. Che però non siano cose ma esseri viventi della nostra specie, figli nostri, ce lo ricorda non solo la ragione ma il diritto (Cedu, Grande Chambre, Parrillo vs. Italia, 2015). Che le vite abbandonate nel gelo e non più volute; che neppure le vite scartate dalla cruda selezione fra sane e malate possano essere gettate via come vite a perdere, ce lo rammenta non solo l’ultimo barlume di coscienza etica, ma il diritto (Corte Costituzionale n. 229/2015, sulla dignità dell’embrione «non riducibile a mero materiale biologico»).
Piuttosto, se c’è una cosa nuova e sorprendente, sconosciuta (o perduta) ai nostri dibattiti intristiti, è la postilla aggiunta da uno dei nove giudici della Corte, perché parla di Dio, e dice che ogni vita uccisa è una ferita a Dio. Nel Paragrafo 2 della Dichiarazione di Indipendenza (1776) fu scritto che «gli uomini sono dotati dal loro Creatore di alcuni diritti inalienabili, e tra questi la Vita». Per l’umano procreare, la venerazione del dono in cui la Creazione l’ha immerso per amore è cosa troppo preziosa per essere perduta.