La questione giuridica. Alfie, il «miglior interesse» e l'interruzione di una vita
Spontaneamente la gente ha portato doni e fiori vicino all'ospedale dov'è morto Alfie (Ansa)
«In questa vicenda giudiziaria, non c’è alcun problema d’interpretazione della legge che possa rivestire un’importanza pubblica e generale». Ha scritto anche questo la Corte suprema del Regno Unito in una delle sue pronunce sul caso di Alfie. E, paradossalmente, ha ragione. Perché la decisione di interrompere i sostegni vitali al piccolo Alfie non è stata presa dai giudici ma dai medici. E il diritto, senza indagarne i fondamenti, ha deciso di avallarla. Una decisione maturata su presupposti tanto indimostrati quanto indimostrabili: «Non è nel miglior interesse del bimbo proseguire i trattamenti vitali», si sono limitati a ripetere più e più volte i sanitari (e con loro i giudici). Ma ciò che essi possono dire – e hanno detto – secondo le loro competenze tecniche è molto diverso: verosimilmente, per il piccolo non ci sarebbero state speranze di guarigione. Un’affermazione, questa, condivisa anche da Mariella Enoc, la presidente del Bambino Gesù di Roma, l’ospedale pediatrico vaticano che in accordo con il Papa avrebbe voluto accogliere Alfie per curarlo fino alla morte naturale. Ma sostenere, pur confortati anche dalla scienza, che un bimbo non potrà vivere a lungo è diverso dall’affermare che il suo «miglior interesse» sia quello di vedersi interrotti i trattamenti vitali. La morte dunque può essere un bene?
È difficile pensarlo, anche perché il concetto stesso di "bene" implica la vita. E in sua assenza, sotto il profilo umano, non è possibile teorizzare alcun "bene". Questo avrebbe dovuto ricordare il diritto, ma così non è avvenuto. Tutte le corti inglesi ed europee interessate dalla vicenda, una volta fatto proprio il giudizio dei medici, hanno avuto gioco facile nel rigettare integralmente le questioni giuridiche proposte dalla famiglia di Alfie. Per esempio, affermando che le terapie salvavita «possono essere imposte, sia che si tratti di un bambino così come di una persona adulta incapace a decidere per sé, se queste rispondono al miglior interesse della persona in questione», emerge ancora una volta come il discrimine tra la vita e la morte viene posto non su una legge, non su un valore e nemmeno su un dato scientifico ma nuovamente sullo stesso giudizio. E sì che l’articolo 2 della Cedu, la grande Convenzione europea dei diritti dell’uomo, sancisce che «il diritto alla vita di ogni persona è protetto dalla legge». E a riprova di quanto il Regno Unito abbia finora creduto in questa fonte normativa è impossibile non considerare come nel 1998, con lo «Human right act» il suo legislatore abbia direttamente trasposto nell’ordinamento interno i diritti inviolabili sanciti dalla Cedu. Non solo: il Codice inglese di deontologia medica afferma che «seguendo consolidati princìpi etici e legali, inclusi i diritti umani», il sanitario deve «partire da una presunzione in favore del prolungamento della vita». Appare dunque sempre più chiaro come l’epilogo della vicenda terrena di Alfie non affondi le radici nella millenaria civiltà giuridica inglese (ed europea), ma al contrario in una cultura che – rovesciando leggi civili prima ancora che valori religiosi – relativizza a monte il valore intangibile della vita. Cercando e trovando nel "diritto vivente" una tanto comoda quanto indispensabile sponda per rilanciare questo nuovo modo d’intendere il vivere e il morire.