Negli anni 60 e 70. Donne sterilizzate a loro insaputa: la Groenlandia ora fa mea culpa
Un'immagine della città di Ilimanaq, in Groenlandia
Avevano 14, perfino 12 anni. Non fu chiesto loro né alle famiglie il consenso, quando, tra gli anni Sessanta e i primi anni Settanta, furono inseriti nei loro corpi dispositivi intrauterini – le spirali – per il controllo delle nascite. « Era una visita medica programmata dalla scuola, tutte le mie compagne sono state chiamate, come ci si poteva sottrarre?», aveva raccontato tempo fa ad Avvenire la nativa inuit Naja Lyberth, classe 1960, psicologa e a capo della Danish Oil Campaign, un vasto movimento di donne che a decenni di distanza, maturato che quella fu una violazione dei loro diritti, hanno presentato una causa collettiva contro il governo danese.
Martedì il ministro delle Finanze della Groenlandia, che solo nel 1979 ha ottenuto una forma di autogoverno da Copenaghen, ha stabilito un risarcimento per 15 donne vittime della campagna di contraccezione forzata che ha colpito la popolazione indigena. Ognuna di loro riceverà l’equivalente di 42mila dollari.
«La cosa più importante è chiedere scusa alle donne. Lo facciamo qui ora, riconoscendo che sono state trattate in modo inaccettabile», ha detto il ministro Erik Jensen. Le donne coinvolte sono molte di più, tra le 4.500 e le 9.000, all’incirca la metà di quelle in età fertile sull’intera isola del Nord Atlantico: l’obiettivo era limitare il tasso di natalità nel territorio artico, che non era più una colonia danese dal 1953 ma all’epoca della campagna sanitaria era ancora sotto il suo controllo. La pratica della sterilizzazione forzata, che per le più giovani si trasformò in una sterilità irreversibile, durò addirittura fino al 1991, quando la gestione del sistema sanitario passò alle autorità della Groenlandia. Ora, dunque, è il governo autonomo e non la “madrepatria” danese ad assumersi la responsabilità dei fatti; Copenaghen ha fatto sapere che attende le conclusioni di una lunga inchiesta, nel 2025, prima di pronunciarsi.
Intanto 143 vittime, tra cui Naja Lyberth, hanno fatto causa allo Stato danese dopo una vasta campagna di “riconoscimento” anche sui social media: il caso dovrebbe andare a processo nel 2025. A seguito di quella inumana campagna di sterilizzazione, il tasso di nascite si dimezzò in pochi ani, con pesanti ripercussioni sull’assetto demografico dell’isola artica. « Il popolo inuit ha sempre avuto famiglie molto vaste - aveva detto ad Avvenire Naja Liberth -, i bambini sono sempre stati considerati per i genitori il supporto per la vecchiaia. Penso che la nostra fecondità facesse paura al governo danese, ossessionato dalla “modernizzazione” dell’isola. Controllando le nascite si sarebbe risparmiato in futuro su asili, scuole, impianti sportivi, sistema del welfare...». La Groenlandia, aveva concluso la psicologa e attivista inuit, «ha perso una generazione. Le famiglie si sono rimpicciolite, i villaggi dove si viveva di pesca sono stati abbandonati, la gente si è trasferita in città, in piccoli appartamenti». Ora finalmente le vittime di quello scandaloso trattamento iniziano ad avere giustizia.