Vita. Dj Fabo e il suicidio assistito: oggi l'udienza alla Corte Costituzionale
Marco Cappato in tribunale a Milano durante un'udienza del processo in cui è accusato di aver aiutato a suicidarsi dj Fabo. Milano, 13 dicembre 2017 (Ansa)
Marco Cappato è imputato di fronte alla Corte d'assise di Milano, che a febbraio ha però sospeso il processo sulla vicenda Dj Fabo e inviato gli atti alla Consulta, dubitando della legittimità dell'art. 580 del codice penale su istigazione e aiuto al suicidio: oggi si è aperta l'udienza in Corte costituzionale.
Suicidarsi: è sempre e comunque un disvalore, oppure in determinate circostanze può essere un diritto? Dunque: ha ragione di continuare a esistere l’articolo 580 del Codice penale, che punisce chiunque induca o aiuti una persona a togliersi la vita, oppure tale norma deve essere dichiarata incostituzionale? È l’interrogativo – giuridico e umano – che scioglierà la Corte Costituzionale dopo l’udienza pubblica di martedì 23 ottobre e le camere di consiglio che ne seguiranno, decidendo sul "caso Marco Cappato" devolutole dalla Corte d’Assise di Milano.
Ricordiamo i fatti da cui scaturisce il procedimento: il 27 febbraio 2017 Fabiano Antoniani – "dj Fabo" –, milanese, muore in Svizzera in una "clinica" che offre il servizio di suicidio assistito. A fianco del paziente – cieco e tetraplegico, tuttavia non terminale – c’è (anche) Cappato il tesoriere dell’associazione radicale Luca Coscioni. È lui ad aver organizzato il viaggio, assecondando la volontà del paziente. Ed è sempre lui ad autodenunciarsi ai Carabinieri di Milano per aver violato il 580 (istigazione o aiuto al suicidio).
La Procura chiede l’archiviazione, ma il Gip ordina la formulazione coatta del capo d’imputazione.
Si apre il dibattimento in Corte d’Assise. Vengono sentiti i parenti più prossimi di Fabiano. Emerge che Cappato non ha istigato ma pur sempre aiutato Antoniani a morire. Allora la Corte, anziché condannare l’imputato, sospende il procedimento e lo invia alla Consulta.
Secondo i giudici milanesi, infatti, non sarebbe conforme alla Costituzione che una persona debba scontare una pena per il semplice fatto di aver aiutato un altro a morire. Eppure, il reato disposto dall’articolo 580 non solo è conforme alla Carta fondamentale ma farlo venir meno mina le basi del nostro ordinamento. È il pensiero, tra gli altri, dei giuristi che hanno collaborato a un numero monografico di L-Jus, la rivista del Centro Studi Giovanni Livatino. Due le evidenze che balzano all’occhio.
La prima la ricorda Claudio Galoppi, consigliere uscente del Csm: «A livello europeo», scrive, esiste «un divieto generalizzato, anche penalmente sanzionato, di aiuto al suicidio». La seconda è portata in luce da Mauro Ronco, ordinario di Diritto penale all’Università di Padova: «La Corte suprema americana nella decisione 26 giugno 1997 si è espressa all'unanimità nel senso della conformità alla Costituzione della proibizione del suicidio assistito».
Due riferimenti che aiutano a comprendere come il divieto italiano sia tutt’altro che peregrino. Ronco formula profondi spunti di riflessione. Su una premessa: che questo discorso non attiene la morale o la religione, ma il valore della vita. E laddove la Corte d’Assise, a sostegno dell’incostituzionalità del divieto, tende ad assolutizzare il «diritto all’autodeterminazione», Ronco osserva che «la decisione umana è sempre il frutto di una serie di condizioni, ciascuna delle quali possiede una peculiare efficacia a seconda dei momenti e dei luoghi in cui è assunta». Dunque «il significato dell’azione è impoverito se non si tiene conto della complessità e dell’interferenza dei vari fattori che concorrono nelle scelte personali». Ecco l’ulteriore conseguenza: «Invece di esprimere l’autodeterminazione libera della persona, spesso la richiesta di suicidio esprime piuttosto l’esito di una sconfitta esistenziale».
Che non è solo del singolo ma di tutta la collettività. Senza contare che «se l’autodeterminazione venisse prima della dignità, la misura di quest’ultima varierebbe da uomo a uomo e condurrebbe allo smarrimento della stessa dignità» come requisito oggettivo di ogni cittadino. E il togliersi la vita, osserva il professore, è la negazione di questa dignità costituzionalmente protetta. Senza contare le ricadute che questa possibilità genererebbe sul rapporto del paziente con i medici, i familiari e la società tutta. Non solo. Il suicidio è un atto irrazionale, quindi non tutelabile dal diritto. E anche la giurisprudenza più "aperturista" – per esempio quella del "caso Englaro", che ha ammesso alcune forme di eutanasia passiva – mai si è spinta a teorizzare un diritto all'assistenza nel suicidio.
È ancora Galoppi a sottolineare quest’ultima evidenza, dubitando che sia possibile una "sentenza additiva", vale a dire che aggiunga qualcosa alla legge (per esempio, una depenalizzazione dell’aiuto al suicidio solo in determinate condizioni): ciò, infatti, sarebbe permesso solo «quando dal dato costituzionale» emergesse «un’indicazione chiara e univoca circa il contenuto della legge mancante», situazione non certo presente in questo caso. Da qui l’interrogativo di Giovanna Razzano, aggregato di Diritto pubblico alla Sapienza di Roma, sempre su L-Jus: «Possono le costituzioni e le convenzioni essere interpretate in maniera tale da ricomprendere possibilità – considerate da taluni diritti – che certamente non risultano dalla lettera delle carte e che erano anzi considerate contrarie ai diritti proclamati da coloro che le scrissero?».