Milano. Delpini: medici, ecco come si può vincere la vostra solitudine
Forse siamo a tal punto assordati e sedotti dall’individualismo che impregna la nostra cultura da non accorgerci dell’insinuarsi di un male che svuota la vita dall’interno come un parassita: è la solitudine - in senso esistenziale e non solo anagrafico - che sta disgregando l’esistenza di tanti, oltre a sgretolare il tessuto sociale. Ma è dentro le professioni a maggior tasso di responsabilità e di impegno che l’essere e il sentirsi soli colpisce più a fondo. E per questo è particolarmente acuta l’intuizione dei Medici cattolici di Milano (Amci) che stanno innovando radicalmente la loro presenza pubblica: anzitutto scegliendo proprio il tema - solo all’apparenza sorprendente - della "solitudine del medico" per il loro convegno, sabato 1° febbraio nella Sala Napoleonica dell’Università Statale, ma anche allargando la partecipazione a tutti i colleghi milanesi grazie all’intesa con l’Ordine provinciale (Omceo), guidato da Roberto Carlo Rossi, che ha promosso l’iniziativa come evento formativo, con la conseguente massiccia partecipazione di camici bianchi.
Ma a far cambiar marcia, con l’intraprendenza del presidente di Amci Milano Alberto Cozzi, è arrivata la lettera dell’arcivescovo Mario Delpini ai medici milanesi, lo scorso autunno, che ha aperto un dibattito nella categoria affiorato ieri e che ha trovato nella partecipazione dello stesso Delpini all’appuntamento Medici cattolici-Omceo il suo esito naturale, un passo molto significativo dentro il percorso di un’amicizia rilanciata.
Premesso che la lettera ai medici è nata per la «gratitudine» verso la loro «sensibilità umana», Delpini si è rivolto ai medici calandosi nelle domande che nascono da un’esperienza professionale che si fa sempre più complessa, tra attese dei pazienti, tecnicismi e burocrazia. Il tema della solitudine, così, è diventato la chiave per entrare nella loro stessa vita, a cominciare dalla forma buona di quella «invocata» per ritagliarsi finalmente «un po’ di raccoglimento, necessario a rivedere interiormente i volti dei pazienti, ad aggiornarsi, a prendersi cura di sé, che è una forma di amore verso il mondo». Se ripulita da forme di «egocentrismo», la solitudine cercata come «un’oasi nel deserto di giornate mai facili» è «persino doverosa» perché può far argine al suo opposto, a quella «solitudine maledetta, subìta come la prova frustrante del sentirsi abbandonati, di dover fronteggiare l’amarezza di chi non capisce le ragioni del medico», sino a forme di violenza purtroppo crescenti di pari passo con le pretese di veder soddisfatta alle proprie condizioni la domanda di salute. È la deriva estrema della trasformazione del «paziente in cliente, che dunque pensa di aver sempre ragione e che esige di ottenere diritti trasformati in pretese». Il medico finisce col «percepirsi come fornitore di servizi di cui il cliente o la sua famiglia non sono soddisfatti». Se ne esce solo ponendosi al fianco del malato in un «atteggiamento di alleanza, entrambi impegnati contro il comune nemico della malattia». Occorre che il medico «trovi i modi per dirlo, una premessa a qualunque adempimento clinico: siamo qui per lottare insieme».
Ancor più radicale è la sfida della solitudine davanti alla malattia «che si presenta con tratti imprevedibili, sconcertanti, come invincibile», e che affligge malati «con caratteristiche personalissime». Davanti al nemico sovrastante, il medico spesso «è l’unico appiglio per il malato», e talvolta «sente di non essere in grado di sostenere un simile peso», tentato di «parcellizzare la risposta - altri specialisti, i farmaci, la tecnologia - per delegare la propria responsabilità». È una delle forme assunte dalla «drammaticità dell’incontro tra l’uomo e il male, specie se inguaribile» e che va affrontata con «l’accettazione della fragilità strutturale dell’uomo, prendendosi cura con umiltà anche di ciò che non si può guarire». È un’altra espressione della «alleanza tra medico e paziente», col primo che «non è un guaritore» ma «il compagno di strada del malato per affrontare l’enigma del male» da «collocare dentro l’orizzonte di un bene più grande, della speranza, anche nella dimensione spirituale del Dio che libera l’uomo dalla morte». È questa una «responsabilità dalla quale il medico non può sentirsi esonerato» e che offre una risposta anche nei casi più estremi, quelli nei quali «il medico deve assumere scelte dalle quali dipende la vita». E se Delpini sui temi del nascere e del morire auspica una «riflessione pacata» capace di «ricercare valori da condividere» e non «sale da spargere sulle ferite», ricorda ai medici anche che «mettendo in discussione accanimento terapeutico ed eutanasia la Chiesa può offrire una parola di saggezza a tutti». In questo terreno l’arcivescovo invoca una «capacità di discernimento per giungere alla certezza morale che la scelta compiuta è buona» mettendo in campo «la solitudine che permette di riflettere nella propria coscienza» professionale e umana, quest’ultima maturata in «relazioni familiari che ritrovino l’equilibrio con l’impegno del lavoro» spesso dominante. Perché non c’è solitudine più insostenibile del sentirsi «prosciugati e indotti ad estraniarsi» dall’affetto dei propri cari. Non isolarsi: vale per i medici, vale per tutti.