Vita

La storia. Da medico a malata (e scrittrice): «Decisivo l'ascolto di noi pazienti»

Costanza Oliva giovedì 30 maggio 2024

Maria Frigerio, medico e scrittrice

«All'inizio mi arrabbiavo, ma ho imparato che con la malattia si può convivere: me lo hanno insegnato i miei pazienti». Nella consapevolezza delle parole della dottoressa Maria Frigerio, direttrice di Cardiologia all'Ospedale Niguarda di Milano fino al novembre 2021, risuonano i tanti anni di esperienza professionale. Da quando, alcuni anni fa, le è stato diagnosticato il morbo di Parkinson, si è trovata a vivere lei stessa la malattia in prima persona. «Non bisogna considerarla una maledizione del destino e nemmeno un'anomalia, non è così strano ammalarsi – spiega –. E di fronte alla realtà non è che si possa fare un granché. Tutto sommato è meglio guardarla per quello che è, e trovare il modo di adattarsi».

È una donna minuta ma imponente ed elegante. Ora che è in pensione ha potuto riscoprire l'antica passione per la scrittura. Ricorda di aver imparato a leggere quando aveva quattro anni, imitando la sorella maggiore. «Il mio professore di italiano del liceo mi disse che dovevo fare la scrittrice, non il medico. Ma speravo di poter dedicare il tempo libero alla letteratura, mentre la medicina non poteva essere un hobby. Per questo non gli ho dato retta e sono diventata una cardiologa, però è rimasta una grande passione». E scrittrice, alla fine, la dottoressa Frigerio è diventata davvero. Nel 2023 ha vinto il primo premio per la sezione saggistica e il premio speciale “Giuseppe Moscati” per la sezione narrativa del concorso letterario per medici scrittori “premio Cronin”, promosso dall’Associazione Medici Cattolici Italiani. E al Salone del Libro di Torino ha portato Il cuore che visse tre volte. Storie di cuori in transito (De Nicola Editore), racconti di esperienze di vita in ospedale raccolte da chi per oltre 20 anni è stata a capo del reparto di insufficienza cardiaca e trapianti dell’Ospedale Niguarda di Milano, che chiama «la seconda, se non prima casa». Un libro in cui toni e registri diversi si incontrano in una narrazione che pone l'accento sulla centralità del paziente e sull'importanza della personalizzazione delle cure. Il titolo corrisponde a quello del primo racconto, il più caro e personale. È il cuore di suo fratello, del suo «super fratello», che per Maria, la sorella minore, era un modello e «un po’ un mito». Quando è mancato, poco dopo aver compiuto 40 anni, il cuore di Alberto ha compiuto altri due viaggi in due pazienti in attesa di trapianto proprio nel reparto della dottoressa Frigerio.

Il libro appena pubblicato da Maria Frigerio - .

La sua esperienza di medico e di parente si intreccia con quella dei pazienti e vibra in una narrazione puntale, intima e profonda. «L'aspetto fondamentale, secondo me, è tener presente che quando lavoriamo con i pazienti ciascuno ha la sua unicità, anche nel modo in cui reagisce e manifesta la malattia», sottolinea la dottoressa Frigerio. L'umanizzazione passa anzitutto dalla comunicazione. «Bisognerebbe insegnare a relazionarsi con il paziente, per imparare a dare le cattive notizie nel modo migliore, ma anche per informare correttamente non solo sui termini legali per il consenso informato ma perché le persone capiscano davvero». Attenzione al paziente significa anche personalizzazione delle cure, avendo la capacità di andare oltre quella che Maria Frigerio chiama «l'ossessione» per le linee guida. «Sono raccomandazioni, non norme cogenti, e bisogna sempre valutare se si adattano al proprio paziente. Le linee guida ci danno una traccia, poi però bisogna fare un passo ulteriore. Dobbiamo ricordarci che curiamo un paziente alla volta: statisticamente, la maggior parte dei pazienti con insufficienza cardiaca è anziana, ma ciò non esclude che una giovane donna possa esserne affetta. È importante non avere i paraocchi: quello che ci troviamo di fronte è un paziente, la sua storia e quello che noi siamo capaci di vedere, ascoltare e tirare fuori». Contemporaneamente, bisognerebbe rivalutare il tempo che il medico passa con il paziente: «Una visita ambulatoriale specialistica è retribuita pochissimo, mentre un esame strumentale viene valorizzato molto di più. Si dà più risalto alla tecnologia che non alla competenza clinica o alla capacità di relazione.

Chi è che dà valore al medico che si mette a organizzare bene la terapia affinché un paziente tolleri e accetti di prendere tutte quelle medicine?». Un vero punto dolente è l'organizzazione. «Da paziente ho sperimentato davvero la difficoltà di trovare la presa in carico – ammette la dottoressa Frigerio –. E mi dispiace perché io invece l'ho sempre difesa per i pazienti trapiantati o in lista, e ne sono molto fiera. Ci dicevano che i nostri pazienti erano troppo cocco-lati, ma è la cosa più logica che ci sia. Il nostro laboratorio di ecocardiografia sapeva che ogni giorno gli avremmo fornito un certo numero di pazienti, ancor prima di conoscere i loro nomi. Sapevamo la misura delle nostre esigenze: se il paziente che viene oggi a fare la visita deve rifare l'ecocardiogramma dopo sei mesi ha il suo slot già pronto». Una buona organizzazione aiuta una buona medicina, che secondo Maria Frigerio si può realizzare con la determinazione, la competenza e la pianificazione. «Avere un piano multidimensionale, onnicomprensivo del malato cronico non è una cosa impossibile da fare».

La dottoressa Maria Frigerio con il camice - .

In questo senso l'innovazione e l'informatizzazione possono essere molto utili. «Penso a un allarme automatico per esami che hanno valori sballati, o per le colture positive. O una modalità, anche solo un pallino rosso, per cui quando apro il pannello degli esami mi vengano mostrati automaticamente in evidenza quelli che non ha ancora mai visto nessuno». Parlando del lavoro le si illumina il viso, stretto tra qualche onda bianca. Racconta la variegata esperienza del trapianto, lavoro specialistico e da internista, allo stesso tempo medico di famiglia e medico scienziato. Le torna in mente l'adrenalina dei momenti più critici, ma subito pensa al patrimonio relazionale con i pazienti, che in alcuni casi va avanti da più di 30 anni. «L'importante è avere la capacità e la volontà di capire il modo di pensare del paziente, e di trovare il modo di farci capire da lui. Ne ho seguiti più di mille che hanno fatto il trapianto, e tanti altri che non l'hanno fatto: non ce ne sono due uguali. L’importante è ascoltare. Noi crediamo di fare chissà cosa. In realtà, quando ci riusciamo diamo un po' di tempo in più alle persone, ma poi se in quel tempo saranno felici o infelici non è in nostro potere determinarlo».

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