Intervista. Suor Costanza Galli: «Cure palliative, vera risposta ai malati»
Suor Costanza Galli
«Occorre combattere una battaglia culturale per favorire cure e assistenza alle persone in ogni condizione e in ogni momento della vita. Anche per i miei pazienti in hospice c’è sempre qualcosa da fare in positivo: le cure palliative sono un dovere per offrire una morte degna a ogni persona, la cui vita è sempre degna». Suor Costanza Galli, primario dell’hospice dell’Ospedale di Livorno (Usl Toscana Nord Ovest), offre un duplice sguardo sulle terapie nel fine vita, sulle disposizioni anticipate di trattamento (Dat) e nel dibattito sull’eutanasia: ha la sensibilità delle Figlie della Carità di san Vincenzo de’ Paoli, e la competenza del medico in un ospedale pubblico.
Come è nata questa sua duplice vocazione, di medico e di suora?
Si tratta di due chiamate a cui ho risposto. Prima a quella di medico: lo sognavo sin da bambina, alle elementari giocavo con le valigette del dottore. La vocazione religiosa è sorta durante l’università, ma mi sono laureata e specializzata prima di diventare suora. E come ha insegnato san Vincenzo, nel malato vedo il povero e la presenza stessa di Cristo. Come medico ho il mio curriculum, nell’ospedale pubblico sono giunta vincendo concorsi, condivido i turni, le notti, il lavoro festivo, il cartellino da timbrare...
Nel fine vita come si preserva la dignità dei malati?
Oggi siamo di fronte a forti contraddizioni. Sui media si sventola la bandiera dell’autodeterminazione e sembra che ci sia un esercito di persone che vuole “autodeterminarsi”, o chiede l’eutanasia. In hospice rileviamo che è molto più ampia la quantità di persone che non sa nemmeno da quale ma-lattia è affetto, perché i familiari non vogliono. Il concetto della dignità è il problema culturale di oggi, e lo rilevo anche fuori dall’ospedale. Sembra che non sia più considerata una caratteristica propria dell’essere umano, da quando nasce a quando muore. Viceversa è diffusa l’idea che la dignità sia un bene accessorio, che dipende dalle situazioni, dalle capacità e dalle prestazioni. Per noi cristiani la persona, creata a immagine e somiglianza di Dio, ha sempre un’altissima dignità. Ma anche prescindendo dalla visione religiosa, la dignità è un concetto antropologico fondamentale, riguarda tutti indipendentemente dalle condizioni: non la cambiano né malattia né colore della pelle, né colpa.
Che conseguenze ha nella pratica clinica questa idea di dignità?
Se si pensa che la vita sia degna “solo se” ha determinate caratteristiche o funzionalità è facile poi ritenere che a un certo momento, in loro assenza, la vita “non sia più degna” e si favoriscano soluzioni eutanasiche. Un’idea che si riscontra non solo tra i cittadini ma talvolta anche tra gli operatori sanitari. E un concetto “funzionalistico” di dignità fa sì che anche le relazioni con gli altri finiscano con avere importanza “solo se” e fino a quando mantengono certe caratteristiche, se mi portano vantaggi.
La legge sulle Dat ha cambiato la vostra attività?
Ho viste ben poche novità, finora. Il problema di solito è quello del corretto consenso informato. Quando si offrono cure anche i malati in hospice guardano alla vita in modo diverso. Ricordo una giovane donna che siamo riusciti a mettere in carrozzina: ci ha ringraziati, e già guardava all’obiettivo successivo di mettersi in piedi. Faccio coordinamento su un territorio ampio: le sofferenze maggiori dei malati, e le rare richieste di farla finita, mi sono giunte non da chi soffriva troppo ma da chi si sentiva un peso per gli altri, per i familiari, o si vedeva inadeguato al modello “funzionalistico”.
Una legge sull’eutanasia cosa comporterebbe per il lavoro in hospice?
Sarebbe una contraddizione. Come cittadina mi domando perché lo Stato dovrebbe dare la possibilità di togliersi la vita a un paziente al quale non sa invece garantire, con le cure palliative, tutte le opportunità di cui ha bisogno e diritto. Ci sono ricerche scientifiche che confermano che le richieste di eutanasia calano dove sono disponibili cure palliative adeguate. In Italia c’è un’ottima legge (la 38 del 2010) sulle cure palliative, naturale antidoto all’accanimento e all’eutanasia: ma nonostante facciano parte dei Livelli essenziali di assistenza (Lea) le cure palliative non sono ancora adeguate né distribuite equamente sul territorio. E su di esse non rilevo nemmeno grande pressione della società civile, che protesta spesso per le mancanze della sanità. Il progetto di legge in discussione ora mi pare ambiguo: non distingue il malato terminale da chi non lo è. La rinuncia a interventi come nutrizione e idratazione, che può avere senso in un paziente terminale, assume un significato diverso se il soggetto è in stato vegetativo: in questo caso la morte avviene perché ho interrotto la nutrizione, non per una malattia.