Vita

Frontiere. Carne sintetica: economica e "green". Ma è anche etica?

Paolo Benanti giovedì 20 gennaio 2022

Mark Post presenta il suo hamburger sintetico

Una delle sfide maggiori nella comprensione di cosa è vivo o cosa sia la vita si rese visibile il 5 agosto 2013 quando più di duecento giornalisti si accalcarono nei Riverside Studios di Londra. La folla, analoga a quella che si raduna per la presentazione degli ultimi smartphone o computer dei maggiori brand internazionali, non era però in attesa di un conglomerato prodigioso di silicio e vetro bensì di un panino: un hamburger, per la precisione, non meno stupefacente dal punto di vista tecnologico.

Il panino in questione era una creazione del professor Mark Post, un docente di biotecnologia dell’Università di Maastricht, che confezionò il piatto utilizzando carne sintetica (detta anche carne artificiale, o in vitro). La carne, cucinata dal cuoco Richard McGeown del Couch’s Great House Restaurant di Polperro, in Cornovaglia, venne assaggiata dallo chef Hanni Ruetzler, studioso di alimentazione del Future Food Studio, e da Josh Schonwald. Nel corso della presentazione alla stampa i due assaggiatori dissero che, a parte essere un po’ meno saporito di un tradizionale hamburger – cosa peraltro incidentale e superabile–, il prodotto artificiale era in tutto e per tutto uguale agli hamburger tradizionali. La stampa diede enorme rilievo all’evento creando una serie di nomi per il nuovo hamburger: in provetta, di laboratorio, coltivato, in vitro, prova di principio, senza crudeltà, e persino il fantasioso ed evocativo «Frankenburger».

Al di là dell’eco mediatica, l’hamburger sintetico era il frutto di cellule muscolari nutrite con proteine che avevano prodotto la crescita del tessuto. Il team olandese spiegò che, una volta innescato il processo, teoricamente è possibile continuare a produrre carne all’infinito senza aggiungere nuove cellule da un organismo vivente. Si è stimato che, in condizioni ideali, due mesi di produzione di carne in vitro potrebbero generare 50.000 tonnellate di carne da dieci cellule muscolari di maiale. La produzione dell’hamburger di Post era costata 331.400 dollari, cifra raggiunta grazie a una donazione anonima di circa 250.000 euro. In seguito, si è risaliti al donatore: Sergey Brin, uno dei due fondatori del colosso informatico Google. La realizzazione di questo alimento in laboratorio ha rafforzato il dibattito che diversi accademici stavano portando avanti sulla natura della tecnologia e sul suo significato per l’esistenza umana.

Una prima domanda a cui sembra necessario rispondere è se la carne in questione sia da considerarsi viva o morta: il tessuto di cui è composto l’hamburger cresce e si moltiplica, ma non sembra avere le caratteristiche fondamentali per definirlo vivo. Inoltre, questa carne non è naturale, ma non possiamo neanche classificarla come artificiale. Il costo e la complessità del primo test pubblico, di fatto, potrebbero farci pensare che la Ivm ( In-vitro meat, carne in provetta) non sia altro che una prova di concetto destinata a restare tema di teoretiche e ipotetiche discussioni accademiche.

Eppure, il mondo delle biotecnologie è in fermento, e, se lo stesso hamburger dovesse essere prodotto oggi, costerebbe solamente 10 dollari, con il prezzo destinato a crollare nei prossimi mesi. In questa nuova epoca come dobbiamo capire e classificare la realtà sintetica che stiamo 'fabbricando'? Di fatto anche la vita sembra essere divenuta qualcosa a disposizione della tecnica, e con questa realizzabile in maniera sintetica e sinteticamente plasmabile per ottenere le proprietà o le quantità desiderate. La questione della carne sintetica è un locus ideale per applicare quella forma di analisi proposta dall’enciclica Laudato si’: l’ecologia integrale. Alla luce di questo sguardo globale sul problema emergono due punti cardine che dovranno essere adeguatamente valutati prima dell’utilizzo delle carni sintetiche. Dovrà essere tutelata la persona: si dovrà essere certi che la produzione, il consumo e la commercializzazione delle carni sintetiche non nuoccia alla salute e al benessere dei consumatori.

In secondo luogo, la sostituzione di tecniche a bassa tecnologia come l’allevamento animale con sofisticate biotecnologie industriali di fatto produce una frattura in quella continuità di relazione al mondo animale per scopi alimentari che caratterizza l’homo sapiens da almeno 30.000 anni. Il know how necessario per questa produzione di fatto creerà una nuova generazione di poveri: gli attuali allevatori (cf. Laudato si’, nn.130-136). Prima che sia troppo tardi, e prima che la carne sintetica diventi un problema da arginare o di cui cercare di mitigare gli effetti negativi sui singoli e sulla società, è tempo di riconoscere la necessità di una riflessione condivisa. Solo così sarà possibile offrire una adeguata governance di queste biotecnologie, orientandone lo sviluppo, la produzione e la commercializzazione verso il bene comune.