Vita

Intervista Peeters. L’assalto della gendercrazia

Giovanni Maria Del Re venerdì 3 ottobre 2014
Gender. Una semplice parola, dilagata negli ultimi vent’anni, è al centro di un’autentica rivoluzione ideologica dalle implicazioni massicce. Perché è la parola-codice che rinvia a una identità sessuale non più collegata a quella biologica fra maschio e femmina. Una dei massimi esperti in materia è Marguerite Peeters, direttore dell’Istituto per una dinamica di dialogo interculturale con sede a Bruxelles, e docente ospite di Teologia presso l’Università Urbaniana. La studiosa si dedica da anni alla questione e ha scritto vari libri in materia. Da ultimo ha pubblicato in Italia Il gender. Una questione politica e culturale (San Paolo, pagine 160 , euro 17,50). La Peeters partecipa domani alla conferenza “La famiglia, nuova periferia esistenziale?”. «La parola gender – spiega – è cominciata ad apparire all’inizio degli anni Novanta nel linguaggio degli organismi internazionali, l’Onu anzitutto. Prima di allora in questo ambito non si utilizzava, ad esempio non esiste nei trattati internazionali sui diritti dell’uomo. Dunque è soprattutto nella conferenza di Pechino sulla donna del 1995 che non solo viene utilizzata, ma diviene centrale in quello che viene definito il “consenso di Pechino”. L’obiettivo della conferenza era quello che in francese e in italiano viene chiamata “eguaglianza dei sessi”, mentre in inglese si parla di “gender equality”. In quel momento la parola gender fu dunque intesa dai partecipanti alla conferenza come riferimento alla parità uomo-donna. In realtà, però, il fatto che si sia usato il termine gender e non più quello di “donna” [quella di Pechino era una “Conferenza sulla donna”, ndr], rivelava che una certa lobby aveva spinto per l’utilizzo di questa parola a livello internazionale». Di quale “lobby” parla?«Se si guarda la storia di questa parola negli Usa fin dagli anni Cinquanta c’è una doppia origine: femminista e omosessuale, che hanno una continuità ideologica». Si riferisce al fatto che con “gender” si recide il collegamento tra identità sessuale e identità biologica?«Esatto. L’obiettivo comune è de-costruire: la maternità, la paternità, la filialità, la nuzialità, la complementarietà uomo-donna. Tutto questo viene interpretato come mera costruzione sociale e non come un dato costitutivo sin dall’origine. Si è perso il senso comune della nostra umanità. È un lungo processo di rivoluzione culturale in Occidente».Come hanno fatto questi gruppi a imporre questa ideologia a Pechino?«Vede, vi è stata una manipolazione semantica, visto che come dicevo la parola gender in inglese può indicare uomo-donna. E i negoziati sono notoriamente in inglese. Nessuno si rese conto delle implicazioni, note solo a ristretti ambienti intellettuali. Del resto si è poi visto che non c’è solo la parola gender, ma un intero linguaggio imposto da una ristretta intellighenzia tutta occidentale. Mi riferisco a espressioni come “salute riproduttiva”, “autonomizzazione della donna” e via dicendo». Questa “rivoluzione culturale” è il prodotto diretto di Pechino?«Diciamo che Pechino è stata presa ostaggio da questi gruppi di pressione di origine occidentale, che si sono serviti della conferenza per farne una tappa fondamentale dello loro strategia. Dopo Pechino questi gruppi si sono impegnati per far passare quello che viene definito gender mainstreaming, e cioè la prospettiva del gender è stata integrata in tutti gli ambiti – economici, sociali, politici – soprattutto a livello delle organizzazioni internazionali. Una prospettiva imposta ai Paesi in via di sviluppo come condizione per gli aiuti. Basti dire che l’Unione Africana, immediatamente dopo la sua creazione nel 2002, ha adottato questa prospettiva del gender in tutti i settori, forse più ancora che in Europa. Interi Paesi sono stati presi ostaggio sulla base del “consenso di Pechino”».Lei ha più volte criticato il tipo di promozione che si fa della donna in questo ambito…«Certo. Si promuove la donna dal punto di vista del potere sociale, economico, politico, ma non si parla mai della vocazione della donna come madre, come educatrice. Perché vede, il disegno di Dio sull’uomo e sulla donna è un disegno di unità e di amore. Dal momento in cui la ricerca si concentra prioritariamente sul potere in modo egoista non vi è più amore. E nella rivoluzione femminista non si parla di amore, ma esclusivamente di potere. Ovviamente sono per lo sviluppo integrale dell’uomo e della donna, ma, come ha detto Giovanni Paolo II, la maternità è una parte dell’essere della donna. Che ha una vocazione diversa da quella dell’uomo». Che rischi corriamo?«Penso che siamo arrivati in fondo al cammino, questi nuovi standard politici e sociali possono solo provocare ulteriori sofferenze. Molti parlano della fine dell’Occidente, che si sta auto-distruggendo, perché il fondamento della civiltà è il rispetto di quel che è davvero l’essere umano. Quest’agenda è solo l’ultimo frutto di un lungo processo – un processo di morte. È evidente che se si resta passivi si arriva a perdere completamente il senso della nostra umanità. Eppure vede, è anche un momento di grande speranza».Speranza perché?«Perché vedo una grande presa di coscienza collettiva, che così non si può continuare. In genere mi pare che la gente sia pronta per un rinnovamento, visto che non ci si era mai spinti tanto in là con la de-costruzione dell’amore. E, al tempo stesso, si registra un grande bisogno di amore, e una grande apertura in questo senso. Anche in vari Paesi in via sviluppo si sta prendendo coscienza che queste norme non corrispondono alle loro culture, a quello che le popolazioni desiderano, si ribellano a questa forma di neo-colonizzazione. È un ritorno verso la persona umana».