Vita

Anziani. Che dolore le accuse alle Rsa. Cosa va fatto per evitare abusi

Marco Trabucchi* martedì 9 luglio 2024

Ogni cittadino del nostro Paese ha provato grande dolore per le accuse di maltrattamenti verso gli anziani riportate dai media in questi giorni. Dolore e sgomento soprattutto da parte di chi crede nell’importanza di una rete che permetta agli anziani resi fragili dalle malattie di continuare a vivere. Perché questo e nessun altro è l’obiettivo che una nazione civile si pone di fronte ai bisogni crescenti dei propri anziani, accompagnati da sempre maggiori difficoltà sul piano umano, sociale, organizzativo, economico. “Continuare a vivere”, avendo ben chiaro che non si tratta di un’esistenza solo biologica ma di un tempo permesso dalle condizioni stesse della vita, perché la violenza, il maltrattamento non sono solo problemi che riguardano la legge umana e divina ma, prima ancora, riguardano la realistica possibilità di sopravvivere.

Chi è fragile, con molti anni sulle spalle, ha una sopravvivenza strettamente connessa con la modalità che caratterizzano la sua giornata, cioè le relazioni che lo accompagnano e la loro qualità. La vita non è mai una realtà autonoma, indipendente, espressione di una biologia isolata; è invece il risultato di un incontro tra la sua continua instabilità e i fattori che la modulano, in senso positivo o negativo. Sono le premesse che fondano la critica radicale all’”ageismo” che la geriatria italiana sta portando avanti con determinazione.

Sulla base di queste premesse, il maltrattamento dell’anziano nelle residenze è la conseguenza di vari fattori. Il primo è l’ignoranza; una persona razionale, e con un minimo di professionalità, comprende che il maltrattamento accorcia la vita. Il secondo è il sadismo: chi maltratta una persona inferiore a lui per capacità fisiche o psichiche è un malato che va curato, cercando di capire le basi psicologiche che determinano il suo comportamento. Va, in ogni modo, escluso dai luoghi dove vivono gli anziani fragili e va posto sotto controllo quando si trova a contatto con loro nelle famiglie. Il terzo è l’incapacità di vedere un senso nell’esistenza dell’altro e quindi nel capire che i luoghi di vita devono essere àmbiti dove la persona è aiutata a non soffrire, a trovare un minimo di serenità, evitando la “solitudine popolata” e l’abbandono. Il quarto è la crisi del concetto di cittadinanza: l’anziano fragile, qualsiasi siano le sue condizioni di salute e le sue richieste anche implicite di aiuto, è un cittadino degno di ascolto, di cura, di gentilezza. Non conosco nelle istituzioni operatori che non sono fermamente ancorati a questo “giuramento di cittadinanza”, che viene prima di qualsiasi altra considerazione sul piano organizzativo, economico, di disponibilità di tempo. Il quinto fattore (ma ve ne sarebbero anche molti altri) che può generare cure inadeguate è la mancanza della concezione di fratellanza, che ha basi religiose, ma non solo. Chi ha un Dio che è Padre non dimentica, anche nei momenti più bui, più faticosi, quando il senso di colpa sembra dominare la giornata, che la carne a lui affidata è carne viva, perché dentro vi è lo Spirito.

Partendo da queste considerazioni, seguo con sgomento la recente discussione sul maltrattamento delle persone anziane all’interno delle istituzioni. Se da una parte “oportet ut scandala eveniant”, dall’altra vediamo la sofferenza, e spesso la rabbia, degli operatori, accomunati a mondi di violenza che la grandissima parte di loro non conosce. Penso agli operatori sociosanitari che lavorano nelle Rsa per stipendi poveri, con orari stressanti, con il pensiero delle famiglie che hanno bisogno di loro. Anche soltanto sfiorare con un sospetto questi nostri concittadini, che spesso vengono da lontano, è un atto indegno. Pretendiamo da loro una cura professionale, gentilezza umana, pazienza e capacità di ascolto e li ricambiamo con affermazioni senza fondamento e senza rispetto. Penso anche agli altri operatori delle Rsa, medici, infermieri, psicologi, educatori, terapisti occupazionali, assistenti sociali. Penso a chi ha il difficilissimo compito di utilizzare risorse scarse, molto scarse, per offrire servizi che esprimono vicinanza, attenzione, affetto (sì, affetto: utilizzo questa parola perché ben ne conosco il significato concreto nelle mille e mille case che offrono una “vita buona” agli anziani fragili). Penso soprattutto ai familiari, molti dei quali hanno già sofferto al momento del ricovero e che oggi vedono le tragiche notizie, e temono per i loro cari.
Di fronte a questa realtà di impegno serio e generoso, presente in molte Regioni italiane, non mi soffermo per commentare le denunce sui maltrattamenti. Ci siamo domandati quali sono le strutture prese in considerazione? Sono certamente lupanari: ma dove sono i controlli formali e sostanziali delle Regioni, l’occhio vigile dei sindaci, il controllo delle comunità, l’attenzione delle realtà ecclesiali? È un errore gravissimo confondere queste strutture, che andrebbero chiuse domani, senza scuse, con le molte altre che in Lombardia, in Veneto, in Emilia Romagna , in Toscana, in Lazio e in altri luoghi sono impegnate con coraggio e generosità.

* Presidente della Società italiana di psicogeriatria