Angelelli (Cei). «Sosteniamo chi soffre, il suicidio assistito non è un gesto di cura»
Pareva finita, invece ci siamo ancora dentro. Il Covid non molla la presa e costringe a tenere aperti conti che si riteneva di poter portare a bilancio. Vale anche per la Pastorale della salute, che nei 30 anni della Giornata del malato – che la istituì – è sempre più parte viva di una sanità in continua emergenza, non più solo accanto ma insieme ai malati, nella loro condizione reale di vita. È uno degli assiomi di don Massimo Angelelli, direttore dell’Ufficio Cei per la Pastorale della salute, con una rete di cappellani, volontari e operatori in tutta Italia.
Cosa stanno registrando i vostri sensori sul campo?
Non siamo usciti dalla pandemia, e intanto il Pnrr non sembra considerare le risorse umane puntando su strutture e strumenti. Il Servizio sanitario nazionale ha perso appeal, sempre meno giovani decidono di investire la loro vita su queste professioni. La Pastorale della salute affianca tutti i sanitari in questa fase complessa: siamo già accanto a loro di giorno e di notte nelle corsie degli ospedali.
Tra i gesti di questo trentennale c’è stata la vostra «Lettera ai curanti». C’è stata risposta?
Abbiamo registrato un riscontro molto ampio mostrando di conoscere e condividere davvero i problemi delle professioni della salute. Per questo è stata molto apprezzata dal personale sanitario che ha avvertito una parola diretta e vera, un riconoscimento del loro operato. Abbiamo registrato un grande ritorno sia personale che istituzionale, è stato colto come un gesto di cura, rivolto a chi negli ultimi due anni ne ha avvertita poca verso di sé e ora rischia di sentirsi di nuovo sotto processo.
Come sta la sanità cattolica?
Si colloca nel sistema sussidiario dello Stato in cui vale la definizione di "sanità pubblica", perché svolge attraverso l’accreditamento un vero servizio pubblico a gestione privata. Peccato che il Pnrr non sembri tener conto di questo che è pur sempre circa il 20% della sanità italiana. Vediamo numerosi progetti di Case della comunità, ma se manca il personale è tutto vano. Allora attraverso il sistema dell’accreditamento la sanità cattolica può sostenere questi progetti rendendoli davvero accessibili alla gente.
Cresce la carenza di personale: come se ne esce?
Tornando a rendere attrattive le professioni della salute, riconoscendo i carichi che i sanitari accettano di portare e aprendo più posti nelle università. Vediamo una frattura tra cittadini e Ssn, la "medicina difensiva" è la conseguenza di un sistema in cui la gente non si sente tutelata e i sanitari non si sentono rispettati. Bisogna ristabilire una relazione reciproca rispettosa e rafforzare i meccanismi di fiducia.
Nel vostro recente Convegno nazionale di Cagliari è emersa una crescente povertà sanitaria. In cosa consiste?
Il nostro Servizio sanitario è ancora un modello ma si sono inseriti meccanismi distorsivi, e l’accesso universalistico alle cure non sembra più davvero tale. Ad esempio, le liste d’attesa caricano un peso improprio sulle famiglie che in alcune zone del Paese si vedono costrette a rivolgersi al privato. È evidente che i sistemi regionali funzionano tutt’altro che allo stesso modo, dividendo i cittadini in categorie secondo luogo di residenza e reddito, con l’effetto del pendolarismo sanitario tra regioni. E qui solo lo Stato può fare qualcosa.
Che impatto sta avendo la pandemia sulla Pastorale della salute?
È cambiato tutto: abbiamo visto scomparire i modelli che avevamo in testa, ci hanno messi fuori dai reparti e così spesso è saltata la vicinanza col malato. In questi due anni c’è stato un grande rafforzamento dell’impegno di tutti gli operatori, ingegnandosi per rendersi comunque presenti. Ci siamo trovati a reinventare il modo di fare pastorale: sta cambiando il Ssn e con lui anche la Pastorale della salute, che sta sempre dove stanno i sofferenti. Se cambierà modello di sanità, saremo pronti a cambiare anche noi. Già è in atto un cambiamento forte con lo spostamento della sanità dalle strutture al domicilio. E per noi territorio significa parrocchie, che saranno sempre più coinvolte per prendere in carico le fragilità là dove si trovano.
Per la Cei il trentennale della Giornata del malato è una grande occasione formativa. Con quali obiettivi?
L’Ufficio ha messo in campo 16 progetti spalmati su un anno sino al febbraio 2023, 8 da settembre. La formazione spinge a ripensare la relazione con il malato, da una risposta principalmente consolatoria andiamo verso l’accompagnamento nel cammino della malattia affrontato insieme, con i tempi e i ritmi del paziente. C’è bisogno di persone – non solo cappellani e assistenti spirituali – in comunità cristiane capaci di partecipare alla vita dei sofferenti lungo tutto il tempo della malattia. Non abbiamo risposte al dolore, quelle le lasciamo alla medicina e alla scienza: la Pastorale della salute offre una risposta relazionale a solitudine e sofferenza durante la malattia. La tentazione di chi si sente solo è la disperazione.
La cronaca ci propone vicende di malati che non ce la fanno più e chiedono al Sistema sanitario di aiutarli a farla finita. Cosa ne pensa?
Dobbiamo riflettere sulla natura di questa sofferenza estrema, in particolare su ciò che distingue il dolore – condizione biologica trattata con una risposta farmacologica – dalla sofferenza, condizione dell’anima e della psiche da trattare per via relazionale. Per sostenere una persona che soffre vedo tre fattori. Il primo è il contesto, cioè le persone, la comunità, la famiglia, le amicizie; poi c’è la risposta di senso alla domanda sul perché, aperta da ciò che si sta vivendo: senza, la vita diventa intollerabile; infine c’è la prospettiva, sapere che c’è qualcosa oltre la vita, capace di illuminare questa parte così onerosa dell’esistenza. Se mancano queste tre colonne portanti la speranza crolla. Dobbiamo pensarci.
E la legge sul fine vita?
Prima delle norme, va fatto tutto il possibile perché le persone vengano sollevate dal loro stato di sofferenza. Credo poi che debba essere molto chiaro a tutti che la "morte medicalmente assistita" non è un gesto di cura: l’impegno della sanità è per guarire dove possibile e curare sempre. Se c’è una persona che ha un’istanza diversa andrà trovata una risposta diversa: un medico non può essere costretto a far morire il suo paziente, per il Servizio sanitario è una finalità innaturale. Se venisse normato un percorso del genere, non può essere il Servizio sanitario che lo eroga.
Un altro tema che si è imposto è l’aborto. Qual è il suo giudizio sul dibattito dopo la sentenza della Corte Suprema Usa?
La nostra posizione resta chiarissima: la vita va difesa sempre. Sono convinto poi che come cattolici, proprio mentre sembra che l’attenzione sia tutta sull’aborto, dovremmo parlare di più di vita nascente. Va trovato un punto di mediazione con una società laica che la vede in maniera completamente diversa da noi. E questo punto non può che essere la maternità e l’individuazione di politiche efficaci per le donne. Un altro terreno di incontro è prendere atto che non siamo più in grado di concepire, c’è in giro tanta farmacologia concentrata sull’impedire il concepimento. È tempo di parlare di politiche della vita, più che di aborti. Andiamo oltre le contrapposizioni. E parliamo del perché generare la vita oggi.