Pillola Ru486. Aborto chimico con ricovero, l'Umbria torna sui suoi passi
Foto d'archivio
Da dieci anni l’aborto chimico – ricorrendo alla pillola abortiva Ru486 e dopo alcuni giorni a un farmaco che permette l’espulsione del feto – è utilizzabile negli ospedali italiani come alternativa a quello chirurgico. Quando il metodo fu accettato nel nostro Paese, si dispose che l’intera procedura avvenisse in regime di ricovero, come accade per il metodo "tradizionale".
Impensabile – si disse – che una donna fosse lasciata sola al di fuori della struttura ospedaliera quando deve espellere il feto morto, con pericoli di emorragia, a casa, sul lavoro o per strada. Da allora i sostenitori dell’aborto chimico, convinti che sia una procedura meno invasiva e più "semplice", si sono adoperati in ogni modo per limitare il processo al day hospital, con la firma delle dimissioni volontarie. A ogni Regione è rimasta l’autonoma scelta tra il ricovero con tutte le sue garanzie e la gestione ambulatoriale con tutte le sue incognite.
Per questo lascia sbalorditi il coro di proteste che dal fronte dei fautori storici dell’aborto chimico – radicali e sinistra in testa – si è levato ieri contro la Regione Umbria "rea" di aver cambiato il proprio orientamento riformando la delibera pro-day hospital del 4 dicembre 2018 (giunta a guida Pd condotta da Catiuscia Marini) con un provvedimento datato 10 giugno (giunta a guida leghista presieduta da Donatella Tesei) che adotta il regime del «ricovero ordinario», com’è in suo potere, secondo le raccomandazioni ministeriali del 2010 e in base a quanto prevede la legge 194 (articolo 8: «L’interruzione della gravidanza è praticata da un medico del servizio ostetrico-ginecologico presso un ospedale generale»).
Ma quando si parla di aborto la semplice realtà dei fatti spesso pare un dettaglio secondario. C’è chi considera la decisione umbra una «operazione politica oscurantista» e di «grave lesione dei diritti delle donne» (le deputate del Pd), chi parla di «decisione arbitraria, contro la legge e anche contro la scienza» (l’ex ministro dell’Istruzione Valeria Fedeli), mentre il sottosegretario alla Salute Sandra Zampa più prudentemente evoca le linee di indirizzo ministeriali del 24 giugno 2010 (ancora in vigore, come ha ricordato il ginecologo radicale Silvio Viale) ritenendole superate e loda la decisione del ministro Roberto Speranza di chiedere «un parere al Consiglio superiore di sanità, alla luce delle più recenti evidenze scientifiche».
Lo stesso Css si era già pronunciato per tre volte (2004, 2005 e 2010) sempre indicando il ricovero ospedaliero. Il metodo e le sue implicazioni problematiche sono gli stessi, cambierà il parere? Certo le Regioni restano libere di organizzare il servizio come meglio ritengono.
Con la delibera di pochi giorni fa la Regione Umbria peraltro si è corretta rispetto all’orientamento espresso in una delibera del 13 maggio, la 374, che a pagina 63 si era espressa per rendere la procedura farmacologica durante la pandemia «maggiormente fruibile» oltre che «estensibile a un’epoca più elevata di gestazione» per «decongestionare gli accessi in ospedale e ridurre le occasioni di contagio». Ovvero la stessa linea promossa dai sostenitori della preferibilità della Ru486 e della sua somministrazione in day hospital. Un mese dopo il dietrofront.
«Apprezziamo e condividiamo le nuove indicazioni sull’aborto farmacologico dell’amministrazione Tesei», fa sapere il Movimento per la Vita umbro che allarga il giudizio all’emergenza pandemia che «rischia di peggiorare la situazione demografica già grave». Per questo «vanno innanzitutto riequilibrate nella nostra regione le passate politiche sull’aborto e la maternità, evidenti anche nei dati dell’ultima relazione al Parlamento sull’attuazione della legge 194, che mostrano, ad esempio, come in Umbria i punti nascita (cioè le strutture dove nascono bambini, per 100.000 donne in età fertile) sono 4.4, a fronte di 6.5 punti Ivg, cioè strutture dove vengono praticati gli aborti».
La nuova delibera va «nel senso di questo riequilibrio, nell’ottica di una maggiore tutela della salute della donna», una scelta che «può continuare con ulteriori gesti concreti di sostegno alla vita nascente e alle donne, in linea con il programma e le azioni già avviate». Dunque «chiediamo di destinare un fondo specifico alle maternità difficili, a quelle donne che chiedono di essere sostenute nel portare avanti la gravidanza ma che si trovano in difficoltà».