Le scelte sulla vita. Aborto anche nei consultori? Ma così si va oltre la legge 194
La gatta frettolosa fa i gattini ciechi, dice un noto proverbio. Sarà quindi per la troppa fretta che le nuove linee guida sull’aborto farmacologico, volute dal ministro della Salute Roberto Speranza, sembrano messe insieme senza troppa preoccupazione di coerenza e di piena attendibilità? Il testo appare infatti incompleto, spesso reticente e con passaggi contraddittori, ma soprattutto palesemente inapplicabile senza un passaggio parlamentare per modificare la legge 194.
Ma andiamo con ordine.
Il Parere positivo espresso dal Consiglio superiore di sanità (Css) in seduta straordinaria il 4 agosto 2020 inizia ripercorrendo le tappe dell’introduzione della metodica abortiva farmacologica in Italia, richiamando quindi i tre precedenti pareri del Css formulati il 18 marzo 2004, il 20 dicembre 2005 e il 18 marzo 2010, che portarono alla richiesta del ricovero ordinario. Ragioni fra le quali vi sono «la non prevedibilità del momento in cui avviene l’aborto» oltreché «il rispetto della legislazione vigente che prevede che l’aborto avvenga in ambito ospedaliero», con un regime di ricovero ordinario: «l’associazione di mifepristone e misoprostolo deve essere somministrata in ospedale pubblico o altra struttura prevista dalla predetta legge e la donna deve essere ivi trattenuta fino ad aborto avvenuto». Ovviamente viene citata la delibera Aifa collegata, dove fra l’altro c’è un riferimento al «sensibile incremento del tasso di complicazioni in relazione alla durata della gestazione».
Logica vorrebbe che il Css indicasse quindi le motivazioni per cui i tre pareri precedenti si ritengono superati. E invece no. Non è dato sapere per quale motivo, scientifico o giuridico, il regime di ricovero ospedaliero adesso non serva più. Neanche una riga di giustificazione. La motivazione principale sembra essere "così fan tutti": negli altri Paesi europei si fa così, in Francia addirittura dal 2001. Si ignora quindi quello che prima si era ricordato, cioè che da noi c’è la legge 194 che comporta obblighi sanitari precisi.
Ricordiamo che la legge 194 non è cambiata, che non sono cambiati i princìpi attivi dei farmaci e non ci sono nuove evidenze scientifiche: le uniche vere sperimentazioni disponibili sono le stesse citate nei tre pareri, poi non se ne sono più fatte. I dati successivi vengono dalla pratica clinica – sicuramente ampia – che ovviamente non può che confermare tutte le osservazioni fatte in precedenza. Riportiamo, ad esempio, letteralmente dal testo: «Non esiste tuttavia la possibilità di prevedere quando l’effetto del mifepristone inizia e soprattutto di avere certezza dell’efficacia. Per tale motivo non è prevedibile la tempistica reale dell’aborto [...] Il tempo di efficacia può quindi variare significativamente da poche ore a qualche giorno».
Con le nuove linee guida la Ru486, il cui uso era consentito finora solo sino alla settima settimana di gestazione, può essere somministrata fino alla nona. Il fatto che le complicanze dopo la settima settimana raddoppiano viene, diciamo così, mimetizzato. Un dire e non dire che deve sicuramente essere costato una certa fatica agli estensori: «Non esistono evidenze scientifiche che sconsiglino la somministrazione di tali farmaci (mifepristone e prostaglandine, ndr) fra la settima e la nona settimana e che giustifichino la limitazione a 7 settimane introdotta in precedenza in Italia. È riportato un lieve aumento della necessità di revisione chirurgica tra 50 e 63 giorni rispetto a meno di 49 giorni (8-10% vs 4-5%) (Schreiber C et al, Semin Reprod. Med, 2005): questo significa che anche 8-9 settimane (fra 50 e 63 giorni di età gestazionale) in oltre il 90% dei casi non vi è necessità di un intervento chirurgico con notevole riduzione di complicanze». Cioè si cita un lavoro di 15 anni fa che mostra che in percentuale le complicanze raddoppiano (sì: raddoppiano) passando da 7 a 9 settimane, dicendo che si tratta di un «lieve aumento».
Ma non solo. Per «rivalutare l’entità delle complicanze» nel metodo il Css fa riferimento ai dati Istat, e non più a letteratura medica, e commenta che «nel corso degli anni diverse regioni hanno adottato percorsi assistenziali che prevedono il day hospital e il regime ambulatoriale e ciò, come si evince dai dati raccolti e analizzati, non ha modificato le percentuali di complicanze immediate o tardive registrate nel corso degli anni». Il Css ha dimenticato di citare le morti fra le complicanze: non ha ricordato cioè le due segnalazioni di donne morte dopo una Ivg farmacologica, eventi descritti proprio sotto il paragrafo «complicanze immediate dell’Ivg» nella relazione al Parlamento del 7 dicembre 2016. Le prime due segnalazioni di decessi dall’entrata in vigore della legge 194. Forse è allora necessario ricordare al Css che è stata segnalata, nella relazione del 22 dicembre 2017, nello stesso paragrafo, un’altra donna morta, stavolta a seguito di aborto chirurgico. Per essere chiari, in 40 anni di esistenza della legge 194 è stato segnalato un unico decesso successivamente ad aborto chirurgico, mentre in dieci anni di disponibilità del metodo farmacologico i decessi segnalati in seguito a questa procedura sono stati due.
Le contraddizioni interne emergono in tutta la loro evidenza nel passaggio in cui si danno indicazioni per le minori: «Alle minorenni è consigliabile offrire l’Ivg farmacologica in ricovero ordinario dopo aver acquisito il consenso dei genitori/autorizzazione giudice tutelare e aver sottoposto la minore a consulenza psicologica valutando difficile l’adesione al percorso terapeutico in tale situazione». Se veramente l’Ivg farmacologica fosse una tecnica più sicura e meno invasiva le minori dovrebbero essere le prime alle quali garantire l’accesso. E invece no: per loro serve il ricovero ordinario. E perché, se il metodo è così privo di complicanze?
Altri aspetti meriterebbero di essere sottolineati, a partire dai criteri non clinici di ammissione al metodo: «Vanno attentamente valutate per una esclusione: pazienti molto ansiose, con una bassa soglia di tolleranza al dolore, con condizioni socio-abitative troppo precarie, con impossibilità di raggiungere il Pronto Soccorso Ostetrico-Ginecologico entro 1 ora. Stante quanto sopra, per le donne straniere si deve accertare l’avvenuta comprensione linguistica della procedura e dei sintomi che la donna stessa deve valutare autonomamente (intensità del dolore, sanguinamento, ecc.)».
Ma anche volendo passar sopra a tutte queste incongruenze e omissioni, la necessità di un passaggio parlamentare resta.
La legge 194, infatti, non consente di abortire a casa. L’aborto deve avvenire in ambito ospedaliero, nei luoghi indicati dall’articolo 8 della legge stessa: il rispetto di questo punto era uno dei cardini su cui si erano basate le precedenti linee di indirizzo e i pareri del Css. Quando l’attuale Css ricorda che in Francia è possibile abortire al di fuori dell’ospedale dimentica di dire che i francesi hanno dovuto appositamente modificare la legge per consentire l’aborto a domicilio.
Il secondo motivo è talmente evidente da rendere imbarazzante spiegarlo. Nelle linee guida, come nella circolare emanata dal Ministero, si parla di somministrazione della Ru486 (in particolare del mifepristone, ma anche a volte delle prostaglandine) nei consultori. Ma il problema è che la legge 194 non prevede che si possa abortire nei consultori, che hanno, secondo l’articolo 2, tutt’altra finalità. All’articolo 8, nell’elenco dei luoghi dove abortire è consentito, il consultorio non c’è. Inoltre, all’articolo 19, si prevede la reclusione fino a tre anni per chiunque effettui un intervento abortivo «senza l’osservanza delle modalità indicate dagli articoli 5 e 8»: e questo sarebbe esattamente il caso di Ivg effettuate nei consultori.
Per abortire in consultorio bisogna cambiare la 194, e questo, in democrazia, va fatto attraverso il Parlamento: dovrebbe essere noto che linee di indirizzo, circolari, pareri scientifici non possono certo modificare il testo di legge a cui si riferiscono.