Oltre l'evento. Giovani e vescovi insieme, un modello per tutta la Chiesa
I giovani al tavolo con l'arcivescovo di Milano, Mario Delpini, nel Duomo ambrosiano
L’esperienza che le Chiese di Lombardia hanno vissuto sabato scorso nel Duomo di Milano mi sembra particolarmente interessante e vale la pena di spiegarne il perché. La formula è stata abbondantemente descritta dalle pagine di Avvenire attraverso diversi articoli, ma qualche immagine pubblicata è più eloquente di molti ragionamenti: i vescovi seduti al tavolo con piccoli gruppi di giovani intenti all’ascolto e impegnati in un dialogo. Una formula semplice ed esportabilissima: chiunque potrebbe ripeterla nel proprio territorio.
Una formula che (come vuole il Sinodo nelle sue 'istruzioni per l’uso') è partita dal basso, da una parte grande della Chiesa italiana ma pur sempre limitata rispetto al territorio nazionale. Una formula che non ha nessuna pretesa di imporsi come modello, ma che già al primo sguardo si offre come un modello interessante: quello che le immagini non raccontano del tutto, è ciò che va al di là dei tavoli dentro la Cattedrale e cioè il grande clima di cordialità e di dialogo effettivo che vi si respirava. Preceduto da un non trascurabile tasso di emozione: dei giovani, certo; non sempre abituati a una vicinanza con i vescovi. Ma anche dei vescovi; mentre li salutavo prima dell’incontro notavo una lieve nota di apprensione: come sarà incontrare per un tempo prolungato dei giovani che si portano dietro le domande di questo tempo e del suo modo di affrontare la vita?
Sia detto per inciso: una apprensione che mi è parsa un valore aggiunto, perché esprimeva il desiderio di non mancare l’incontro, mostrava la consapevolezza di quanto a questi vescovi stessero a cuore in quel momento le nuove generazioni. Una formula semplice, ma non facile. Quello che è accaduto sabato scorso si è svolto con grande linearità, ma dietro non è mancata una progettazione seria: sabato la Chiesa lombarda ha attraversato uno snodo preparato da un cammino sconosciuto ai più. I giovani, infatti, non erano portatori di sé stessi, ma avevano fatto passaggi nelle loro diocesi incontrandosi con i loro coetanei.
Sono rimasto un po’ di tempo ai margini dei tavoli per 'origliare' come andava il dialogo e notavo, sorridendo, che più volte i giovani dicevano «mi hanno detto di dire che…». Piccola formula che li autorizzava a prendere confidenza con l’interlocutore che avevano davanti, a uscire dall’imbarazzo di dover dire qualcosa di scomodo senza offendere nessuno. E comunque il dialogo assumeva spessore perché si parlava di 'noi'. Non di visioni personali e individualiste. A sua volta questo autorizzava i vescovi a prendere la parola e a interagire anche per offrire, molto sinceramente, il loro punto di vista.
Alla fine il clima di soddisfazione che si registrava, ha mostrato quanto possa avere senso il coraggio di cominciare una buona volta a parlarsi tra generazioni e tra persone che hanno ruoli diversi nella Chiesa, senza escludere chi ne ha uno di guida e sostegno a una comunità intera. Perché è vero che i giovani hanno un diritto di parola diverso: li si prende per quelli inesperti, per quelli più liberi perché spesso noi adulti diciamo che non hanno ancora esperienza della vita.
Ma sono quelli che hanno il coraggio di dire ad alta voce le cose che sono sotto gli occhi di tutti, ma che preferiremmo continuare ad ignorare. Quanto sia necessario questo passaggio nella Chiesa, non c’è bisogno di spiegarlo: lo sappiamo e basta.
Vorrei aggiungere un’ultima cosa che mi pare interessante di questa proposta. Abituati come siamo a 'mettere a tema' ogni cosa, noi adulti tendiamo a teorizzare tutto. Ma, diciamolo, parlare insieme di sinodalità è quasi una tautologia, rischia di essere un parlarsi addosso. La sinodalità è una faccenda molto concreta e ha bisogno di essere sperimentata prima ancora che essere teorizzata. E le cose concrete, anche quelle importanti, si imparano facendole. Mi pare che sabato scorso si sia visto nel Duomo di Milano un 'esercizio di sinodalità', se preferite chiamatelo 'laboratorio'. È importante: potrebbe aiutarci a uscire dalle secche di discussioni di parte, ideologiche, che ci farebbero impantanare in astrusi discorsi buoni per i salotti ma inutili per un passo giusto. Potrebbe farci toccare con mano quanto sia affascinante camminare insieme.
responsabile Servizio nazionale di pastorale giovanile