Esiste qualcosa di più falso di un reality nonostante la definizione? Probabilmente sì, ma non molto. E a dimostrarcelo, ogni tanto, ci pensa direttamente la tv quando parla di se stessa come nella serie statunitense Unreal, ideata da Marti Noxon e Sarah Gertrude Shapiro, in onda il martedì in prima serata su Rai 4 (con repliche la domenica alle 23.10). La dimostrazione avviene attraverso una fiction che parla di un reality. Ovvero, se c'è una reale possibilità di smascherare i meccanismi della falsità in tv lo si fa attraverso un'altra falsità: una finzione, appunto. Tutto questo rafforza però la denuncia di un mondo cinico, al limite del paranoico, sul quale Unreal ironizza in modo spietato. Per esigenze televisive, nel secondo livello narrativo, non si soddisfano nemmeno i bisogni primari, compresi quelli fisiologici, ma si mette in atto ogni perfidia pur di ottenere i risultati televisivi in termini di ascolto. Nel caso specifico, il reality rappresentato nella finzione della finzione si chiama The everlasting e fa parte degli show in cui un ragazzo single e benestante deve trovare la sua anima gemella tra una schiera di pretendenti. Il tutto sotto gli occhi delle telecamere con una quantità incredibile di girato da rendere poi appetibile a milioni di telespettatori attraverso un sapiente montaggio (proprio come nella realtà). Intorno al reality (e qui siamo nel primo livello della rappresentazione) lavorano una serie di personaggi tra cui Rachel Goldberg, produttrice televisiva trentenne con un passato da alcolista, che torna sul set dopo un anno in terapia subendo la pressione costante della executive Quinn King. Sta di fatto che Rachel, scendendo a compromessi con se stessa, deve impegnarsi a manipolare al meglio i suoi concorrenti per dar vita allo show, dimostrando quanto conti (perché è così anche nella realtà) la parte autoriale di certi programmi. Ma il punto qualificante della serie, che fa del linguaggio meta-televisivo l'aspetto caratteristico, è il rammentato doppio livello narrativo insieme al disincanto con cui rappresenta la distorsione delle situazioni a favore del racconto televisivo. Una modo per dissacrare l'ambiente della televisione e svelare i meccanismi (spesso poco noti al grande pubblico) che risiedono dietro la costruzione di un reality, che di realistico, come detto, ha molto poco se non addirittura nulla.