«Youtuber assassino, vada in carcere» Ma quale giustizia vogliamo davvero?
La psicologia sperimentale ha mostrato che la tendenza retributiva è fortemente radicata nell’essere umano. In alcuni esperimenti dove in gioco sono ricompense monetarie, le persone sono disposte a pagare di tasca propria perché siano sanzionati coloro che non collaborano o trasgrediscono le regole del gioco. Si tratta del “senso di giustizia” che istintivamente ci anima e chiede di vedere punito chi viola le norme della convivenza, in proporzione alla gravità del delitto commesso. Non dobbiamo però dimenticare che si tratta di una forma di “vendetta” sottoposta a vincoli e amministrata dallo Stato a nome della collettività. Qual è la giusta condanna per il giovane che ha provocato (involontariamente) la morte del piccolo Manuel? Difficile dirlo. Ma la vostra idea, gentili lettori, come di molti altri italiani, è che il colpevole debba almeno un po’ soffrire per il dolore procurato. Dobbiamo chiederci se sia sempre la risposta migliore, soprattutto se l’afflizione si infligge attraverso la reclusione nelle carceri italiane, dalle quali non poche volte si esce persone peggiori di come ci si è entrati. Nella complessa transizione a un sistema che cerchi di recuperare i rei alla convivenza civile, invece di farne perenni disadattati, ciò che comunque dobbiamo evitare è l’utilizzo di un finto pentimento per sfuggire alle conseguenze dei propri atti criminali. Forse pene accessorie pubbliche - la sospensione a vita della patente, che non preclude la possibilità di viaggiare; lavori socialmente utili (e visibili) - potranno inizialmente placare la nostra
tendenza a rispondere al male con il male senza ostacolare la via appena imboccata di nuove forme di “rieducazione del condannato”, come prescrive l’articolo 27 della Costituzione. © riproduzione riservata