Il torneo di tennis di Wimbledon, oltre ad essere il più famoso e prestigioso al mondo, va ben oltre il puro fatto sportivo. È un coacervo di storie che tengono insieme il sacro e il profano dello sport, un’etichetta che sembra fuori dal tempo, gesti nobili e guasconerie, fairplay e ferocia agonistica, lacrime e sorrisi. Ed è anche un manuale di geopolitica, sfogliato nell’ultima pagina, quella delle finali, perfino dalla famiglia reale britannica. L’edizione 2023 non ha smentito nessuna delle caratteristiche del torneo più amato al mondo, unico ad imporre un dress code ai giocatori (quel bianco totale per il quale Roger Federer venne bacchettato da un arbitro perché aveva… le suole delle scarpe arancioni!) e che ha perfino un proprio dessert ufficiale: le fragole con panna.
Insomma, nulla di ciò che succede a Wimbledon può risultare indifferente. Tanto meno le lacrime. Lacrime di eroi o eroine che ce l’hanno fatta (oppure no), lacrime di frustrazione o di gioia, lacrime grottescamente imitate in una scenetta poco edificante di “rimprovero” al pubblico. Partiamo da queste ultime, le più dimenticabili, quelle di Novak Djokovic. Il vincitore delle ultime quattro edizioni consecutive nel corso della semifinale contro il nostro Jannik Sinner, dopo essere stato disturbato dal pubblico e aver annullato un set point, si è rivolto verso gli ignoti contestatori mimando un improbabile pianto, come un bambino. Nulla da dire nei confronti del tennista Djokovic, interprete straordinario di questo sport e capace di vincere tanto nell’era di due mostri sacri come Federer e Nadal, ma i suoi atteggiamenti dentro e fuori dal campo (le infinite polemiche sulla sua posizione NoVax che lo portò a dichiarare il falso per tentare di partecipare agli Open di Australia, oppure alle discutibili amicizie in quella Serbia dove pare destinato, alla fine della carriera sportiva, a diventare un leader politico) fanno pensare alla differenza che passa fra essere un ottimo tennista, forse perfino il migliore, e un campione nel senso pieno del termine. Lacrime finte, quelle di Djokovic, e lacrime vere, quelle di Ons Jabeur, tennista tunisina, per la seconda volta consecutiva finalista e sconfitta. E dire che questa sembrava la volta buona, dopo aver condotto sia il primo che il secondo set, prima di cedere, forse più mentalmente che tecnicamente, alla sua avversaria Marketa Vondrousova, unica tennista capace di vincere Wimbledon (ma questa sarebbe un’altra storia) senza essere testa di serie. Ons Jabeur, dopo la sconfitta in finale è scoppiata in un pianto inconsolabile, singhiozzante, probabilmente per essere di nuovo andata così vicino a diventare la prima donna africana e araba a vincere sull’erba londinese. Ha trovato conforto nell’abbraccio della Principessa del Galles, Kate Middleton, a cui ha promesso: «Tornerò e un giorno vincerò». Ha vinto invece un ragazzo spagnolo, probabilmente chiudendo un’era tennistica e aprendone un’altra. Il sorriso pulito, sincero, stupefatto del ventenne Carlos Alcaraz mentra mentre alza la Coppa e la mostra al pubblico resterà la cosa più bella, in attesa delle nuove storie che, inevitabilmente, Wimbledon 2024 ci regalerà.
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